Il 12 febbraio 1924 esce il primo numero del quotidiano del Partito comunista d’Italia L’Unità. Il giornale è voluto da Antonio Gramsci e ha come sottotitolo “quotidiano degli operai e dei contadini”. Il nome della testata riassume l’idea di un’alleanza in una composizione nazional popolare. Nella lettera per la fondazione della testata, Gramsci ne sottolinea il tratto: “giornale di sinistra” ma senza “alcuna indicazione di partito”. Sulla scorta di questa suggestione, nelle gestioni più ambiziose si vorrebbe realizzare un quotidiano in grado di valicare il perimetro degli iscritti e dei simpatizzanti.
Ancora prima di salire al potere, il fascismo aveva individuato nella stampa uno dei sui principali nemici. Se ne accorge in ritardo il Corriere della Sera che, dopo aver sostenuto e giustificato lo squadrismo fascista, nel 1923 ne diventa uno dei principali bersagli. I fascisti ne sabotano la lettura incendiandone i pacchi che arrivano nelle stazioni. Ancora peggiore è la situazione per il quotidiano socialista Avanti! (ultimo collante di un partito che non può più mobilitarsi), spesso sequestrato prima ancora di uscire. Non è consentito leggere in pubblico un giornale di sinistra poiché si rischia l’aggressione.
L’Unità nasce in questo contesto e la sua diffusione difficilmente passa dalle edicole, ma vive sulla distribuzione dei militanti. L’editoriale del primo numero precisa: “il nostro giornale si propone a tale scopo di sondare metodicamente le cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima sconfitta”. In quei primi anni quasi nessuno riesce a cogliere la natura del fascismo, fra questi il più acuto è Piero Gobetti. Gramsci ancora non è riuscito a capire il fenomeno, illudendosi, come tanti altri, che il fascismo sarebbe potuto cadere in conseguenza dell’omicidio di Giacomo Matteotti nel giugno 1924.
Il progetto di giornale nazional popolare, così come era stato pensato da Antonio Gramsci, non può trovare sviluppo nella clandestinità. Le difficoltà dei primi mesi sono acuite da una attesa chiarificatrice creata dal vuoto che vive il Partito comunista sovietico tra la malattia e la morte di Lenin. Sul quotidiano clandestino, spesso ridotto a un solo foglio, scrivono solo i dirigenti del partito che esortano alla lotta, informano sull’attività antifascista all’estero, sull’Unione Sovietica, sui congressi fornendo indicazioni ideologiche. Ancora prima della messa fuori legge non c’è spazio per i giornali. Dal 3 al 16 gennaio 1925 – quando il fascismo diventa regime – L’Unità è sequestrata per 11 volte.
Per un reale progetto di giornale nazional popolare occorre attendere il dopoguerra, quando la testata cessa di portare i contributi dei soli dirigenti formando un gruppo di giornalisti iscritti al partito. Il tentativo di aprirsi alla società civile investe gli intellettuali d’area, non necessariamente tesserati con il Pci. Il decennio di dirigenza di Pietro Ingrao (1947-1957) nel clima di contrapposizione della guerra fredda si mantiene su una stretta ortodossia nelle pagine politiche, proponendo una sezione culturale di alto livello con i contributi di Elio Vittorini, Italo Calvino nella rubrica Gente del tempo, del premio Nobel per la letteratura Salvatore Quasimodo, del critico letterario Giacomo Debenedetti. Il poeta Alfonso Gatto scrive le cronache del giro d’Italia, il poliedrico Umberto Barbaro, già sceneggiatore e fondatore del Centro sperimentale di cinematografia, si occupa di cinema. Su queste pagine si affaccia una parte importante della cultura italiana. Da un lato gli intellettuali sono attratti dalla “diversità” del Pci, dal consenso che riscuote fra gli operai, dal suo progetto di Paese di fronte a governi che procedono a corto raggio. Dall’altro lato agisce l’ambizione del Pci di infondere una coscienza nazional popolare nelle masse, scorgendo negli intellettuali un importante catena di trasmissione.
Su questo profilo, L’Unità si attesta come uno strumento importante fino al termine degli anni Settanta, perché è il quotidiano più omogeneamente diffuso nel Paese, quindi un vero quotidiano nazionale, e perché non parla al solo bacino di iscritti – che già nel corso degli anni Sessanta cominciano a scendere – ma si attesta come interlocutore della più ampia fascia di elettori che risultano in aumento fino alle elezioni del 1976, quando il Pci ottiene il 34,37% dei voti. Il giornale – con le feste dell’Unità che contribuiscono a renderlo popolare e a finanziarlo – prova a essere nello stesso tempo uno strumento di lotta, uno spazio di cultura popolare, un osservatorio sul mondo guardando a esperienze extra europee (come il Cile di Salvador Allende) quali possibili spunti per il laboratorio italiano.