Alle voci che si alzano a livello internazionale per chiedere il cessate il fuoco e il termine dell’offensiva militare israeliana nella Striscia di Gaza si unisce un nutrito team di medici e scienziati che hanno redatto un paper intitolato “Sul dovere internazionale di proteggere la popolazione di Gaza, come il collasso del sistema sanitario indica l’intenzione di genocidio”.
Il dettagliato documento è stato redatto a fine gennaio da una ventina di medici e ricercatori di calibro internazionale ed è attualmente in revisione al Journal of Public Health and Emergency, autorevole rivista scientifica specializzata in analisi su sanità pubblica ed emergenze sanitarie.
Nel testo gli autori affrontano la questione da un punto di vista strettamente sanitario, utilizzando il termine “genocidio” perché ritengono il deterioramento del sistema sanitario a Gaza non sia un “effetto collaterale”, ma un atto deliberato per infliggere danni massicci alla popolazione. Un attacco sistematico e intenzionale contro un gruppo di persone, e nel contesto specifico, attraverso la negazione dei diritti alla salute e alla sopravvivenza. “Attacchi militari e bombardamenti degli ospedali, assedio e occupazione delle strutture sanitarie, privazione di carburante e forniture mediche, cibo e acqua, uccisione del personale e detenzioni indiscriminate”. Nell’articolo scientifico la conta delle vittime degli attacchi al sistema sanitario al 22 gennaio: 374 tra medici e infermieri uccisi e 99 sanitari arrestati per non aver obbedito agli ordini di evacuazione.
A parlarne al Fatto è la dottoressa Paola Manduca, prima firmataria del report che attinge dai dati riportati dalle organizzazioni sanitarie attive ai confini della Striscia di Gaza e dalle testimonianze di colleghi con i quali gli autori hanno collaborato in anni di cooperazione internazionale. “Rispetto a quando abbiamo consegnato il lavoro, la situazione è ulteriormente peggiorata – spiega – Oggi nella Striscia di Gaza funziona solo un ospedale rispetto ai 36 originariamente attivi, a metà gennaio le strutture ancora attive erano tre. A ciò si aggiunge la sospensione dei fondi per l’Agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi (Unwra), unica organizzazione in grado di confrontarsi adeguatamente con l’enorme emergenza umanitaria in corso”.
Tra gli autori Alice Rothchild, già dottoressa e docente all’Harvard Medical School e attivista di Jewish Voice for Peace (organizzazione ebraica che promuove una soluzione equa e pacifica al conflitto israelo-palestinese), Alan Meyers, professore emerito in pediatria a Boston e Derek Summerfield del King’s College di Londra. Molti i medici italiani coinvolti, tra i quali il cardiochirurgo infantile Vincenzo Stefano Luisi, che da anni coordina le missioni umanitarie italiane a Gaza con il Palestine Children’s Relief fund e Gianni Tognoni della Fondazione Lelio Basso. “Attaccare la sanità pubblica in ogni suo aspetto (strutture, approvvigionamenti, personale) in modo cosi violento, deliberato e pervasivo – è la tesi esposta del documento – è un crimine che ha come conseguenza potenziale la morte di un’intera popolazione”.
Tra gli elementi sottolineati nell’articolo in peer-review, “le unità di terapia intensiva neonatale e i reparti maternità negli ospedali che sono stati tra i primi obiettivi militari di ogni attacco agli ospedali. Delle circa 180 donne che partoriscono ogni giorno pochissime riescono a ricevere assistenza e non funziona alcuna unità di terapia intensiva neonatale”. Stando alle testimonianze raccolte, il personale sanitario continua a lavorare “come può”, ma l’ingresso di aiuto professionale dall’esterno è fortemente limitato. Per questo, come riferito anche dai medici che hanno portato in Italia i primi pazienti rifugiati, molte operazioni urgenti avvengono senza anestesia e strumentazione adeguata. Così gli ospedali diventano sovraffollati luoghi di asilo per gli sfollati: “Il personale che ha deciso di non accettare l’evacuazione riesce a salvare delle vite – spiega ancora Manduca – ma l’obiezione all’evacuazione li espone al rischio di ulteriori attacchi da parte dell’esercito israeliano”.
Il testo scientifico descrive ulteriori dettagli dell’emergenza sanitaria: “Molte ferite, divenute incurabili, rischiano l’infezione, rendendo le amputazioni una drammatica ma necessaria scelta per preservare la vita”. Viene evidenziata la mancanza di assistenza medica essenziale: “Non sono stati forniti farmaci ai pazienti affetti da malattie croniche, lasciando senza trattamento 1200 pazienti in dialisi, inclusi 45 bambini. Tutti i farmaci e le attrezzature terapeutiche sono filtrati ai varchi e non raggiungono gli ospedali. L’attacco diretto alle ambulanze da parte dell’esercito ha ridotto la disponibilità di questo servizio vitale, mentre si registra un aumento esponenziale di malattie contagiose, anemia, diabete e ipertensione, patologie già diffuse a Gaza e aggravate dalla scarsità di medicinali”. Questo crollo del sistema sanitario trova conferma anche nei report dall’Organizzazione Mondiale della Sanità del 21 dicembre e del 15 gennaio, nei quali viene sottolineato come il “sistema sanitario vicino al collasso” si combina dalla “grave malnutrizione” generata dal conflitto, creando una crisi umanitaria senza precedenti. “In queste condizioni – conclude Manduca – ci prendiamo la responsabilità di utilizzare il termine genocidio perché la vita di quasi un quarto della popolazione civile di Gaza è a rischio”.