“La mia vita è stata distrutta, per fortuna non sono morto. Ho vissuto dieci anni sotto scorta e venti con il porto d’armi. Piango le conseguenze di questo mio parente, non voglio fare neppure il nome, la morte di mio padre, e adesso sono l’unico a pagare. Alle mie sorelle è stato riconosciuto l’agevolazione di legge, a me no. Vorrei far leggere al presidente Mattarella o al ministro Piantedosi la documentazione e il parere della prefettura di Palermo, per capire cosa ne pensano. È un grande pastrocchio”. Le parole di Giovanni Busetta sono strette tra i denti, tra rabbia e dolore. Alle sue spalle il ritratto del padre, le foto con il presidente Sergio Mattarella a un evento di Libera, e quella scattata al “bunkerino” insieme al magistrato Leonardo Agueci e all’allora presidente dell’Anm Palermo, Giovanna Nozzetti. Una vita passata con il terrore e la paura di poter essere ucciso, e lo sconforto di ciò che lo Stato gli ha negato. Essendo vittima di terrorismo e mafia, secondo la legge 206 del 2004, per lui sarebbe previsto l’aumento figurativo “di dieci anni di versamenti contributivi utili ad aumentare”, come avvenuto per le sue sorelle. Eppure nel suo caso è stato tutto bloccato.
“L’olocausto di mio cognato”. Il parente “innominato” è don Masino Buscetta, il “boss dei due mondi”, padrino di Porta Nuova, figura cardine del maxi processo, che ha permesso a Giovanni Falcone di aprire le porte di Cosa nostra. Giovanni è il quinto figlio di Pietro Busetta, un artigiano di Bagheria che ha sposato Serafina Buscetta, sorella di Don Masino. Ma quando il boss decide di collaborare con la giustizia, portando alla “retata di San Michele”, 366 mandati di cattura emessi dalla procura di Palermo a settembre 1984, Totò Riina e i corleonesi decidono che bisogna tappare la bocca a Don Masino. Per farlo colpiscono i suoi familiari. Il 7 dicembre Pietro Busetta, incensurato e mai coinvolto nelle logiche di cosa nostra, è ucciso a Bagheria. La moglie Serafina ai giornalisti dirà di ripudiare il fratello, e di non volersi più chiamare Buscetta. Un messaggio così forte, che spinge Don Masino a non indietreggiare, e a scrivere una lettera ad Antonio Caponnetto, consigliere istruttore a Palermo: “La mia scelta di collaborare con la giustizia è irrevocabile. Ancora una volta la furia omicida si è abbattuta sulla mia famiglia colpendo chi è più ignaro e lontano dai problemi della mafia. Ma non ci saranno dietro-front: Cosa nostra deve essere distrutta”. E aggiunge: “Voglio sperare che l’olocausto della morte di mio cognato possa essere l’ultimo compiuto da questa masnada di assassini, abominevoli e scellerati. Per quanto mi riguarda non è servito a farmi tornare indietro”.
Vittima di terrorismo. Nel frattempo, a giugno 2004, la prefettura di Palermo riconosce Giovanni “familiare di vittima di terrorismo e della criminalità organizzata”, e tre anni più tardi è assunto per lo stesso motivo dalla Regione siciliana al centro dell’impiego di Bagheria. Nel 2010, il ministero dell’Interno conferma che ai cinque figli di Pietro Busetta spettano i benefici della “legge 3 L.206/2004”, “in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice”, garantendo “ai fini della liquidazione della pensione e dell’indennità di fine rapporto o altro trattamento equipollente”, anche “alle vedove e agli orfani”, “l’aumento figurativo di dieci anni di versamenti contributivi utili”. Lo stesso anno, sempre il Viminale, approva “l’assegno speciale” per i cinque figli di Busetta a decorre dall’agosto 2004 e non dal primo gennaio 2008, come previsto dalla legge. Nell’ottobre 2011, una delle sorelle di Busetta va in pensione, anche lei assunta dalla Regione Sicilia, con il riconoscimento dell’aumento figurativo di 10 anni, in “qualità di familiare di vittima di terrorismo”.
“Terrorismo o Mafia?”. Eppure quando Giovanni presenta domanda, con la stessa documentazione della sorella, il sistema si inceppa. A dicembre 2019 infatti, gli uffici della regione siciliana chiedono un parere alla Prefettura di Palermo, per fare chiarezza se nel caso di Busetta si tratta di “familiare di vittima di terrorismo” o “della criminalità organizzata”, e quindi vada riconosciuto lo scatto dei dieci anni. Una congiunzione che cambia ogni cosa. A luglio 2020, la prefettura di Palermo boccia la richiesta perché non lo ritiene “vittima di terrorismo”, portando la Regione (marzo 2021) a negare il riconoscimento, “unicamente in favore dei familiari delle vittime del terrorismo e non anche per i familiari delle vittime della criminalità organizzata”. Se da una parte lo scatto di dieci anni è stato negato a Busetta, dall’altra, nello stesso periodo, viene garantito alla figlia (dipendenti regionale) di un imprenditore, anch’esso ucciso dalla mafia.
Riconoscimento negato. “Lo stesso dirigente regionale che ha firmato l’atto per le mie sorelle nel mio caso ha chiesto il parere prefettizio. In questi anni la Prefettura di Palermo non mi ha mai ricevuto. Si nasconde dietro un dito. Da quattro anni chiediamo un appuntamento, non siamo stati mai ricevuto con tutto l’avvicendamenti di due prefetti”, dice Busetta. Viene presentato anche il ricorso alla Corte dei conti, che per ben due volte però lo respinge. L’ultimo, in appello (novembre 2023), ritiene Busetta “non vittima di terrorismo”, mentre “l’avvenuto riconoscimento dei benefici” dati alla sorella “non può legittimare questa Corte a riconoscerlo” anche al fratello. Inoltre, in merito al caso citato sulla dipendente figlia di un imprenditore ucciso dalla mafia, la Corte sostiene che il delitto “si prefiggeva scopi destabilizzanti volti a creare sconcerto tra la gente e l’isolamento degli investigatori nel tessuto sociale”.
“La sentenza della Cassazione sulla morte di mio padre parla di strategia di sterminio dei partiti e dei loro già stretti familiari. Quello che ho vissuto non è isolamento e terrore? Tutta la mia vita è stata osteggiata e distrutta. Adesso mi sento di aver subito un altro torto, dov’è l’equità costituzionale? Non voglio né sconti né favori, solo che venga applicata la legge come per tutti gli altri”, dice rammaricato Busetta.