Mondo

In Libano la guerra aperta non conviene a nessuno, ma dopo gli ultimi attacchi il punto di rottura tra Hezbollah e Israele è più vicino

Un colpo preciso. Poi, un boato. E il fumo nero in cielo. Il corpo inerme di Hassan Ali Najam, 26 anni, nome di battaglia “Jihad”, membro di Hezbollah, il movimento sciita libanese alleato dell’Iran, è intrappolato tra le lamiere che restano della sua auto, sventrata dalla ferocia di un attacco aereo israeliano sul lato della strada di Adsheet, un villaggio nel Sud del Libano. Una trentina di chilometri più a Sud, a Souaneh, riversi tra terra e polvere, un bimbo di appena due anni, un ragazzo di tredici e la moglie del loro papà. Sono tutti morti.

“Attacchi”, avverte Hashem Safieddine, presidente del consiglio esecutivo di Hezbollah, che “non resteranno impuniti”. Una risposta, quella dell’esercito con la Stella di David, all’ultima salva di razzi partiti dal Libano meridionale in cui ha perso la vita una soldatessa israeliana e altre otto persone sono rimaste ferite a Safed, nei pressi di una base militare, nel Nord dello Stato ebraico. Un affronto, per il ministro israeliano della Sicurezza nazionale, e leader dell’estrema destra, Itamar Ben Gvir, che suona come una dichiarazione di guerra.

Dello stesso avviso, Benny Gantz: “Coloro che stanno dietro i lanci di missili e razzi dal Libano non sono solo Hezbollah o fazioni terroristiche. La responsabilità ricade anche sul governo e sullo Stato libanese, che consentono tali azioni dal loro territorio”, tuona il ministro del gabinetto di guerra israeliano. Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah, il 12 febbraio, nel suo sesto discorso alla nazione dall’inizio del conflitto tra Israele e Hamas, è stato chiaro. “L’Asse della Resistenza Islamica”, ha avvertito, “continuerà ad attaccare il nemico sionista fino a quando non ci sarà un cessate il fuoco permanente all’interno della Striscia di Gaza”. Ed è pronto a contrattaccare se il premier israeliano Benjamin Netanyahu avesse intenzione di allargare il conflitto al Libano.

Cronologia dell’escalation – Gli scontri a fuoco transfrontalieri tra Hezbollah e l’Idf sono iniziati l’8 ottobre, il giorno dopo i sanguinosi attacchi sferrati da Hamas su suolo israeliano in cui hanno perso la vita oltre 1200 persone. Inizialmente le due parti si sono testate a vicenda, misurando attentamente le proprie azioni e reazioni, con l’obiettivo preciso del movimento sciita libanese di dividere le forze di difesa israeliane – una parte a Sud, a Gaza, e un’altra parte a Nord – in modo tale da indebolirle.

Poi, però, le regole di ingaggio sono cambiate. Perché il 2 gennaio un raid israeliano ha ucciso Saleh al-Arouri, il numero due dell’ufficio politico di Hamas, mentre si trovata nel suo ufficio a Dahyeh, periferia Sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah. Un assassinio mirato nel cuore della capitale libanese, seguito dall’uccisione di Wissam al-Tawil, comandate della forza Radwan, l’unità delle forze speciali di Hezbollah, e Ali Barji, comandante delle forze aeree del movimento, che ha portato il leader del Partito di Dio, da molti esperti considerato il “grande fratello” di Hamas, a puntare il dito contro lo Stato ebraico, suo acerrimo nemico da sempre, e intensificare le operazioni militari contro Israele.

D’altronde, Hezbollah negli anni è cresciuto e oggi è un vero e proprio esercito, finanziato dall’Iran con 700 milioni di dollari l’anno: può contare su 100 mila soldati, 150-200 mila razzi e missili a corto, medio e lungo raggio, una flotta di circa 2000 droni. Il ministero della Difesa israeliano calcola che potrebbe lanciare fino a 1.500 razzi o missili al giorno e quindi saturare i sistemi di difesa Iron Dome, al punto da bucarli. Ma non solo. In prima linea in un Libano che ospita da decenni oltre 450 mila palestinesi, ci sono anche gli uomini armati di Hamas e quelli del Jihad islamica palestinese. Si definiscono “l’Asse della Resistenza” e mostrano lo sforzo coordinato dall’Iran per unificare i fronti contro il vicino Israele e sostenere, così, la causa palestinese.

Eppure, l’ipotesi di una guerra tra Tel Aviv e Beirut non converrebbe a nessuno. Benjamin Netanyahu sa bene che colpire direttamente Hassan Nasrallah vorrebbe dire dichiarare guerra a Teheran. Hezbollah, invece, sa bene che se decidesse di unirsi all’offensiva di Hamas sotto la bandiera dell’“unità dei fronti”, trascinerebbe il Libano in un ciclo di violenza senza fine, strozzando definitivamente un paese già al collasso. Ma, razionalità a parte, il timore che la guerra si allarghi è reale. La tensione sale, il punto di rottura è vicino.