C’è una donna seduta per terra a non fare nulla. Vive in un villaggio del Senegal e il suo lavoro è quello di comprare il pesce dai pescatori, metterlo sotto sale e venderlo nel villaggio, ma anche ad altri clienti. Insieme ad altre donne, che facevano lo stesso lavoro, rappresentava un anello importante del sistema con cui si produce e si consuma cibo in quella zona. Solo che di pesce non ce n’è più, perché lo comprano tutto le fabbriche di mangimi (per gli allevamenti in crescita esponenziale) e, così, se prima c’erano venti persone a venderlo, oggi sono rimaste in due, spesso costrette a non fare nulla. “È un’immagine che dice tutto, c’è qualcosa che non va in questo sistema. Ed è quello che abbiamo cercato di raccontare”. Dopo ‘Deforestazione made in Italy’ e ‘One Earth – Tutto è connesso’, il regista e giornalista Francesco De Augustinis presenta al Maxxi di Roma (il 15 febbraio, alle 18) il nuovo documentario ‘Until the end of the world’ (guarda il trailer). Un viaggio durato tre anni alla scoperta dell’industria dell’acquacoltura, cioè l’allevamento degli animali in acqua, iniziato per capire se davvero questo modello produttivo contribuisca a rendere più sostenibile il sistema alimentare, come promette, per far fronte alla domanda di cibo di una popolazione mondiale che potrebbe raggiungere 9,7 miliardi di persone nel 2050. Il documentario – frutto di un lavoro di ricerca realizzato in tre continenti, grazie al sostegno di journalismfund.eu e dell’Internews’ Earth Journalism Network – racconta come l’industria del pesce incida, però, in maniera significativa su sostenibilità ambientale, sicurezza alimentare e sullo sfruttamento delle risorse, inquinando paradisi naturali e distruggendo piccole economie locali in varie parti del mondo.
Una nuova forma di colonialismo – Vale la pena investire tutte queste risorse sull’industria del pesce? L’acquacoltura può sfamare il pianeta? La risposta è nei racconti che arrivano da Italia, Grecia, Spagna e Senegal, fino alle acque un tempo incontaminate della Patagonia cilena. Il film mostra gli effetti collaterali della crescita dell’industria, che ricorda molto quanto successo pochi decenni fa con gli allevamenti intensivi di terra. “È un sistema che ripete gli stessi errori degli allevamenti intensivi di terra e sottrae le risorse dove ce n’è più bisogno. Nel film si racconta di un perenne conflitto per le risorse – spiega il regista – legato al crescere smisurato di questa industria”, che dipende dalla cattura di risorse naturali, che siano porzioni di mare da trasformare in aree produttive o enormi quantità di pesci da trasformare in mangimi. “Abbiamo incontrato realtà molto diverse – ricorda De Augustinis – e tantissime comunità locali, che stanno combattendo ognuna la sua battaglia. In Senegal abbiamo raccontato come vengono presi i pesci per trasformarli in farina che viene esportata in Cina, Europa, Norvegia per fare mangimi per gli allevamenti”. In questo modo si sottraggono pesci alle popolazioni che hanno più bisogno, in una sorta di nuovo ‘colonialismo’. Quella raccontata in Senegal è solo una delle storie documentate. “Sono una cinquantina le fabbriche di questo tipo nei Paesi dell’Africa occidentale – Senegal, Gambia, Mauritania – dove prendiamo farina e olio di pesce” racconta il regista.
Dall’Antartide all’Europa – L’eccessiva dipendenza dalla pesca, in uno scenario dove oltre la metà delle specie marine sono già pescate sopra i livelli di sicurezza, sta spingendo l’industria a cercare ‘nuove soluzioni’ per produrre mangimi e nutrire un numero sempre maggiore di pesci negli allevamenti. Molto spesso, però, si tratta di false soluzioni. L’ultima parte del documentario arriva ‘fino alla fine del mondo’, tra le acque gelide che circondano l’Antartide. Questo è uno dei luoghi più simbolici del Pianeta, la cui sopravvivenza oggi è messa in seria discussione dai cambiamenti climatici. Ma anche l’Antartide deve fare i conti con la ricerca incessante di materie prime per nutrire la crescita senza sosta dell’industria degli allevamenti di pesce. Indietro si può tornare? “Credo che in alcune situazioni sia necessario, come in Turchia e in Grecia dove, se si cammina lungo la costa delle zone meno turistiche, si possono vedere gabbie ovunque, con centinaia di migliaia di animali a 50 metri dalla costa” spiega il regista. Anche in Italia, però continuano a spuntare progetti per nuovi allevamenti sulla scia degli investimenti europei e nazionali. “Soprattutto nel Golfo di Follonica una delle zone di maggiore espansione del Paese. L’impatto visivo è meno forte rispetto a quello che si ha in Grecia e le condizioni di allevamento migliori – aggiunge – ma non significa che sia più sostenibile, dal punto di vista della produzione dei mangimi e dell’inquinamento. Tutt’altro”.