Assolto in primo grado e condannato in appello. La Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza con cui, il 28 giugno del 2023, la Corte d’assise d’appello di Catania aveva inflitto tre anni e quattro mesi a Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit-Italia, per istigazione al suicidio per il ricorso all’eutanasia nel 2019 in Svizzera di una 47enne della provincia etnea. Alessandra Giordano, un’insegnante di Paternò (Catania),morì il 27 marzo del 2019 nella clinica svizzera Dignitas. Era affetta da una nevralgia cronica rara, la sindrome di Eagle, molto dolorosa, e dalla depressione. Un caso che aveva fatto discutere ma completamente diverso da quello di Dj Fabo per cui Marco Cappato era stato processato e assolto dopo la sentenza della Consulta.

La sentenza di secondo grado aveva riformato quella di assoluzione emessa il 10 novembre del 2021, con la formula “perché il fatto non sussiste” dalla giudice per l’udienza preliminare gup Marina Rizza. Contro la decisione di primo grado avevano presentato ricorso il procuratore aggiunto Ignazio Fonzo e il sostituto Andrea Brugaletta. Il pm Andrea Ursino aveva presentato in aula la richiesta di condanna integralmente accolta. La Corte d’assise d’appello aveva disposto per Coveri anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e il risarcimento danni per le parti civili costituitesi in giudizio, cinque familiari della donna.

Secondo la Procura, che ha coordinato indagini di carabinieri e polizia postale, Coveri “ha fornito un contributo causale idoneo a rafforzare un proposito suicidario prima incerto e titubante su una persona affetta da patologie non irreversibili benché dolorose, anche perché non ben curate, sfruttando l’influenzabilità della donna per inculcare le sue discutibili idee di suicidio assistito come soluzione alle sofferenze fisiche e morali della vita”. Per l’accusa “la scelta individuale, assunta in piena autonomia deve essere rispettata”, ma bisogna valutare se “noi riteniamo che sia lecito proporre alle persone che non versano in condizioni di patologia irreversibile, magari soltanto depresse, il suicidio come unico rimedio ai propri mali”.

La signora – ha sempre sostenuto Coveri – era una nostra associata e le abbiamo semplicemente fornito, su sua richiesta, le informazioni che le servivano per prendere una decisione. Una procedura normale. Alessandra – aveva detto a indagine chiusa – non ne poteva più delle sofferenze indicibili che aveva e che le avevano rovinato l’esistenza. Stava malissimo e aveva dovuto lasciare il suo lavoro di insegnante perché non riusciva a stare più in piedi dal dolore che aveva“.

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