L’ultimo Festival di Sanremo fa fatica a sparire dai media nazionali. Gli appelli di Ghali (“stop al genocidio”) e Dargen D’Amico che invocano un cessate il fuoco immediato a Gaza, richiesta che solo cinque mesi fa sarebbe stata giustamente accolta come un messaggio di pace, ciò che in effetti è, oggi viene additata da una parte dell’opinione pubblica, quella che continua a ricordare “il diritto di Israele all’autodifesa” dopo più di 28mila morti palestinesi, di cui il 70% donne e bambini (fonte Unicef), come un nuovo atto di guerra, un affronto alla memoria di 1.200 persone trucidate il 7 ottobre dai carnefici di Hamas, addirittura un comizio politico “senza contraddittorio“.
Il clima è talmente avvelenato che il 14 febbraio l’ambasciata israeliana nella Città del Vaticano si è scagliata contro il segretario di Stato Pontificio, Pietro Parolin, definendo “deplorevoli” le sue dichiarazioni. Cosa aveva detto di così vergognoso? Aveva espresso “condanna netta e senza riserve di quanto avvenuto il 7 ottobre”, cioè l’attacco di Hamas, e “di ogni tipo di antisemitismo”, avanzando anche la “richiesta” che “il diritto alla difesa di Israele debba essere proporzionato. Certamente con 30mila morti non lo è”. Esattamente quello che hanno ribadito tutti i Paesi alleati d’Israele, compreso il ministro degli Esteri Antonio Tajani, l’amministrazione Biden (che secondo indiscrezioni giornalistiche ha anche avviato indagini per verificare eventuali crimini di guerra commessi da Israele a Gaza) e anche la diplomazia Ue. Tanto che l’ambasciata ha poi dovuto ricalibrare la propria posizione sostituendo il termine “deplorevole” con “sfortunato”.
Ma ciò che proprio non va giù è l’uso del termine “genocidio“. Ne sono una prova, il giorno dopo lo scontro Israele-Vaticano, le lettere e i commenti apparsi su alcuni giornali italiani per respingere ogni accostamento del genere all’operazione militare di Israele a Gaza. Lo afferma, ad esempio, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, che in una lettera al direttore de La Repubblica ha contestato che la tv pubblica non abbia previsto un contraddittorio da opporre all’appello “stop al genocidio” lanciato da Ghali. Resta da capire come si possa opporsi a un’affermazione come “stop al genocidio” senza sfociare nell’illegalità. “Il problema non era che lui ne parlasse – chiarisce Di Segni -, ma che non vi fosse alcun contraddittorio e che le sue parole passassero come un messaggio di pace. Che invece di pace non è, è un linguaggio improprio, schierato, che sotto l’apparenza della misericordia e della condanna della guerra mescola le carte in tavola, sovverte la Storia“. E aggiunge che questo diritto di parola non sarebbe stato garantito a tutti, affermazione che può essere facilmente smentita con un semplice giro sui canali tv, comprese le reti pubbliche. Ma il rabbino capo incalza, parlando addirittura di “libertà di diffamazione” per poi scagliarsi addirittura contro Papa Francesco, reo di aver omesso nel appello alla pace del 2 febbraio scorso, “accanto a una ferma condanna dell’antisemitismo”, “qualsiasi riferimento diretto a Hamas“. E chiude sostenendo che “lo spirito critico dovrebbe guidarci nel valutare cosa nascondono slogan e proclami, dove c’è una reale volontà di pace, e come poter essere insieme costruttori di pace”.
Rincara la dose, stavolta su La Stampa, la scrittrice Elena Loewenthal che attribuisce alla reazione scomposta dell’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede motivazioni di tipo storico. Nello specifico, ritiene che il “tardivo riconoscimento dello Stato d’Israele da parte della Santa Sede”, avvenuto solo nel 1993, abbia “il suo peso specifico in queste relazioni tutt’altro che semplici”. Più precisamente, “dal Vaticano Israele si aspetta una visione che vada al di là di comodi schieramenti e guarda con particolare insofferenza a prese di posizione che non sono il frutto di un pensiero ‘alto’, cioè lungimirante e attento”. Non si capisce su che basi Loewenthal stabilisca se il pensiero della Chiesa sia “alto” o meno, a meno che per “alto” non si intenda “allineato” alle posizioni d’Israele.
Come detto, la posizione del Vaticano non è stata espressa all’improvviso, ma è maturata col passare dei mesi, l’aumentare delle vittime, il massacro dei civili e il trasferimento forzato (non da una deportazione, ma dalla minaccia di finire vittima dei bombardamenti di Israele) di oltre 1,5 milioni di rifugiati palestinesi. Lo stesso è successo, come detto, anche all’interno delle cancellerie “amiche”, basti pensare al cambio di postura registrato in Germania, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e anche in Italia. Ma il termine “genocidio” rimane comunque un tabù per molti. Anche Piero Fassino, sempre con una lettera a Repubblica, spiega perché: “Contesto altresì il ricorso alla parola ‘genocidio’ – scrive – in una equivalenza tra quel che accade oggi e la Shoah che Liliana Segre ha bollato come un parallelismo inaccettabile“. Ma chi ha paragonato ciò che sta succedendo a Gaza alla Shoah? Di certo non Ghali o la maggior parte di chi oggi critica l’efferatezza dell’esercito israeliano nel compiere i propri raid. L’Olocausto è stato il genocidio più sanguinoso della storia moderna, ma di certo non è stato l’unico. Se quindi di “genocidio” si può parlare riferendosi a quello degli armeni, a quello del Rwanda, a quello degli yazidi o dei rohingya, perché un cantante, ma prima di tutto un cittadino italiano libero, non può ritenere giusto utilizzare lo stesso termine per ciò che sta avvenendo a Gaza? La certezza di non poterlo fare non ce l’ha nemmeno la Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu che ha respinto la richiesta di archiviazione di Israele e deciso che vi fossero elementi sufficienti a ipotizzare violazioni della Convenzione sul Genocidio e che quindi questi dovevano essere analizzati. Perché una valutazione su questo deve avvenire non rispetto ad altri eventi storici, come sembra sostenere Fassino, ma in base ai canoni stabiliti dalle convenzioni internazionali.
A ricordarlo a Di Segni e Fassino, sullo stesso giornale, è anche Michele Serra che nella sua Amaca definisce “veramente imbarazzanti” le polemiche scatenate dalle parole di Ghali e Dargen. “Nessuno ha inneggiato alla strage o esaltato la violenza (ingredienti che abbondano nei social), dove sta dunque lo scandalo, perché la stizzosa trafila di comunicati, repliche, correzioni, con quale centimetro questo Paese si è ridotto a misurare la sua piccola indignazione, i suoi cavilli retorici, le sue beghe, di fronte ai chilometri di sangue che scorrono laggiù? Nella fase (insperata) in cui il Parlamento trova per miracolo un suo momento di decenza, e sospende il gioco delle parti per chiedere il cessate il fuoco, non potrebbero cessare il fuoco anche le fazioni mediatiche, che si accapigliano da quattro mesi a costo zero, giusto per il piacere di mettere i puntini sulle ‘i’ dell’altro? E se ognuno si limitasse a occuparsi delle ‘i’ proprie? Se anche un trapper o un giornalista o chiunque abbia parola pubblica (dunque: molte migliaia di persone) dice la sua, in base a quale strambo principio gli si chiede di correggere, emendare, aggiungere, come se si dovesse sempre arrivare a una specie di ‘pensiero comune‘ proprio su un argomento sul quale un pensiero comune non esiste?”.