“L’hanno ucciso”, mi scrive un vecchio amico di Mosca che oggi vive in esilio. Non dico il nome per evitare problemi a lui e alla sua famiglia. Ma è pure la prima cosa che ha detto un altro mio conoscente, il premio Nobel per la pace Dmitri Muratov, direttore in esilio della Novaja Gazeta in cui lavorava la povera Anna Politkovskaja, assassinata nell’androne di casa sua a Mosca, il 7 ottobre del 2006, guarda caso nel giorno del compleanno di Putin. Che lei aveva accusato nelle sue inchieste e nei suoi libri di corruzione e manipolazione.
“Un delitto”, ha infatti detto Muratov all’agenzia Reuters. Il comunicato ufficiale del servizio penitenziario russo comunica che la morte di Alexei Navalny sarebbe avvenuta il 16 febbraio, un malore l’avrebbe colto mentre “stava passeggiando”.
“Può darsi. Ma può anche essere morto prima, questo non lo sapremo mai”. A dicembre del 2023, per qualche giorno, si erano perse le tracce di Navalny. Lo avevano infatti trasferito in gran segreto, un girovagare per la Russia e la Siberia durato ben due settimane, forse addirittura venti giorni. L’ordine di trasferimento veniva “dall’alto”, dissero gli avvocati e gli amici del suo gruppo d’opposizione, finalmente si venne a sapere che era stato relegato nella peggiore delle colonie penitenziarie, la famigerata IK-3 di Kharp, 1900 chilometri a nord ovest di Mosca, oltre il circolo polare artico, nella Siberia Occidentale, regione di Yamal. Una galera al centro di diverse denunce per torture e maltrattamenti, tanto che persino il procuratore distrettuale della zona era stato costretto a confermare che c’erano state “violazioni della legislazione penitenziaria”.
“Non sapremo mai se c’è stato un’ordine diretto dietro quel trasferimento”. Da parte di Vladimir Putin, il bersaglio delle accuse di Navalny. L’amico di Mosca è prudente. Quando viene diffuso il comunicato della morte di Navalny, colui che è ritenuto dai militanti dell’opposizione come il presunto mandante stava in diretta tv e rispondeva alle domande degli studenti e degli impiegati di un settore industriale della regione di Cheliabinsk, negli Urali, e non aveva ancora commentato la notizia. Del resto, come ha titolato la Frankfurter Allgemein Zeitung, era morto “l’uomo di cui Putin non vuol dire il nome”. Al contrario, l’attivista divenuto leader dell’opposizione non si peritava di tacere, anzi. Un giorno definì il presidente russo “un uomo diventato folle. Un mentitore patologico con megalomania e delirio di persecuzione (…) uno zar mezzo pazzo” (intervista al New York Times del 2021).
Così come non è stato zitto il presidente francese Emmanuel Macron che non ha avuto alcun dubbio nel ricordare la figura di Navalny: “Saluto la sua memoria, il suo impegno, il suo coraggio”, ha scritto su X “nella Russia di oggi si mettono gli spiriti liberi nei gulag e li si condannano a morte. Collera e indignazione”.
In today’s Russia, free spirits are sent to the Gulag and condemned to death. Anger and indignation.
I pay tribute to the memory of Alexeï Navalny, his dedication, his courage. My thoughts go out to his family, loved ones, and to the Russian people.
— Emmanuel Macron (@EmmanuelMacron) February 16, 2024
“In effetti, deve aver patito torture e chissà cos’altro…”.
La colonia penitenziaria 3, in realtà, ha solo cambiato nome. Fondata all’inizio degli anni Sessanta, si chiamava prima “Gulag 501”. Un luogo dove raramente sopravvivevi. Anche oggi, il regime carcerario è spaventoso: niente prodotti essenziali, scarsità di indumenti, celle ghiacciate, piccole come cucce di cani, senza aerazione, umide; sevizie frequenti a cominciare dalle bastonature nei locali doccia, approfittando che i detenuti sono nudi e completamente inermi. Inoltre, questa colonia sarebbe destinata ai criminali più pericolosi, colpevoli di efferatezze innominabili, ma non a prigionieri “politici” come Navalny. Infatti, sempre nel circondario di Kharp (il cui soprannome è “Gufo invernale”), esiste una sorta di succursale per detenuti a regime di “assoluto isolamento”. E’ identificata con il numero 18. E’ da lì che, appena arrivato e capita l’antifona, Navalny ha rilasciato una spavalda brevissima dichiarazione: “Sono di buon animo, mi sento come Babbo Natale”, riferendosi alla barba che durante il viaggio gli era cresciuta sul volto smagrito.
Navalny era conscio che sarebbe stata l’ultima tappa della sua vita, durata 47 anni e vessata dalle persecuzioni del regime putiniano e dai tentativi di ucciderlo: l’ultima volta, col veleno, su di un aereo. Salvato per miracolo, curato solo dopo lunghe e spossanti trattative col Cremlino, quando venne portato in Germania per una difficile e complicata riabilitazione dall’intossicazione quasi letale. Era il 2020. Lui non accettò di restare esule, ma volle lo stesso sfidare Putin tornando da Berlino a Mosca. Il despota russo lo ha fatto arrestare appena sceso dalla scaletta dell’aereo: “E’ un agente provocatore dei servizi americani”. Il che ne giustificava la custodia e l’arresto. Quanto alle fulminanti inchieste sui ladrocinii del regime putiniano e di quegli oligarchi complici del Cremlino (pubblicate sui suoi blog Rospil, ossia “la razzia della Russia”, e Fbk, “il Fondo della lotta contro la corruzione”), “sono state realizzate utilizzando materiali forniti da servizi segreti stranieri”, era il mantra della propaganda di Stato. I media si accanirono nel definire Navalny un neonazista, un fascista, un ultranazionalista, un razzista antisemita e xenofobo. Che incitava all’odio interetnico fomentando la guerra civile.
La lunga agonìa dell’avvocato dai profondi occhi azzurri che osò combattere Putin cominciò con una serie di processi farsa in cui – grazie a testimoni prezzolati e a una magistratura che eseguiva gli ordini del Cremlino – era accusato di tutto e di più, soprattutto di “estremismo”. Alla fine, il conto da pagare con questa giustizia deviata salì a 19 anni e all’isolamento. L’ingiustizia così palese, le angherie, le falsità e le privazioni di qualsiasi diritto tuttavia non piegarono mai Navalny, il quale non smarrì in alcun modo della sua determinazione. Il cadavere di Navalny, a poche settimane dall’ennesima tornata elettorale in cui c’è Putin e non ci sono oppositori perché scappati dalla Russia, perché sbattuti in galera o finiti sottoterra (15-17 marzo) diventerà la prova della spietatezza di un regime illiberale, dunque una sconfitta, morale e politica, per lo zar: da oggi la sua vittima, il suo antagonista, il suo rivale diventa un martire.
La morte di Alexei Navalny, “eroe” dell’opposizione a Putin, ha suscitato uno tsunami di emozioni, di rabbia, di indignazione in tutto il mondo. S’intende il mondo libero e democratico, non quello delle autocrazie. O dei sovranismi. Tra le numerosissime reazioni, quella di Leonid Volokov, il braccio destro di Navalny: “Il comunicato della colonia penitenziaria numero 3 è una confessione”.