Per Volodymyr Zelensky la città di Avdiivka era già persa da giorni. L’esercito russo l’aveva ormai accerchiata, così il presidente, a differenza di quanto fatto ad esempio nel corso della battaglia di Bakhmut, ha chiesto alla leadership militare di salvare la vita dei militari. Anche il generale di brigata Oleksandr Tarnavsky ha dichiarato di aver “mantenuto questa posizione finché ci ha permesso di scoraggiare e distruggere efficacemente il nemico”, ma adesso è arrivato il momento di lasciare la posizione per “preservare i militari e migliorare la situazione operativa”. Così i soldati ucraini hanno abbandonato questa cittadina da 32mila abitanti diventata la conquista (o perdita) più importante degli ultimi mesi in una guerra sempre più statica tra Russia e Ucraina.
Fino al 2021 Avdiivka era stata una cittadina con il territorio in gran parte occupato da aree agricole, impianti industriali e cumuli di terreno e minerali estratti dal suolo. Non era attraversata da nessun asse viario o ferroviario di importanza strategica. Degno di nota è il fatto che la distanza tra questo “villaggione” e le prime case di Donetsk, il capoluogo della regione occupato dai russi, è inferiore ai 10 chilometri: un margine così poco ampio, comunque, non fa la differenza con i droni e le artiglierie in uso a entrambe le parti.
Dal punto di vista militare, Avdiivka era diventata quello che si definisce un “saliente“, cioè a una parte del teatro di battaglia che si proietta in territorio nemico ed è circondato su due o tre lati. Questo fa sì che le truppe che lo occupano siano particolarmente vulnerabili: un saliente profondo corre il rischio di essere tagliato dal nemico formando una sacca in cui le truppe rimangono bloccate. Il saliente di Avdiivka in mano ucraina aveva una profondità di circa 9 chilometri e una larghezza che oscillava tra i 2 e i 3. La parte dell’oblast di Donetsk ancora sotto il controllo di Kiev si estende, oltre Avdiivka, per una profondità che oscilla tra i 50 e i 70 chilometri: una distanza infinita dopo un anno di avanzamenti di pochi metri o decine di metri al giorno. Esisteva una sola via di comunicazione che permetteva ai soldati di Zelensky di lasciare le aree fortificate senza abbandonare le armi e i veicoli. Era arrivato il momento di sfruttarla per non finire risucchiati dai russi.
L’atlante, insomma, offre un’immagine che – senza essere esperti di questioni militari – si riesce a capire bene: le battaglie che negli ultimi dieci anni si sono susseguite qui senza soluzione di continuità tra le truppe fedeli a Mosca e quelle ucraine e che hanno portato nella tomba quasi 50mila persone, tra civili e combattenti di entrambe le parti, hanno riguardato un fazzoletto di terra. Eppure, sia il Cremlino sia la Casa Bianca sia il presidente Zelensky si sono sbracciati per attribuire a questo scontro un valore simbolico che trascende quello che il piccolo centro ha dal punto di vista strategico. Il combattimento si è svolto solo per motivazioni non militari. La parte ucraina non ha voluto concedere all’avversario vantaggi politici, ne ha approfittato per farlo dissanguare e per dimostrare al mondo che senza i rifornimenti occidentali le forze di Kiev non hanno possibilità di andare all’offensiva. La parte russa, dopo che Bakhmut era stata conquistata da una compagnia di mercenari della Wagner, poi protagonista di un tentativo di colpo di Stato, aveva bisogno di annunciare la prima conquista di un territorio, una “gloria” che manca dai tempi di Severodonetsk e Lysichansk nel lontano giugno 2022.
Poco importa se la battaglia ha lasciato nei campi montagne di cadaveri e dove sorgevano le case e le chiese solo brandelli di muri. Ma non è ancora finita. Gli ucraini avevano all’interno del saliente un battaglione e tre brigate meccanizzate, un reggimento delle forze speciali della polizia e due battaglioni di fanteria: soprattutto, a darsi da fare è stata la 110ma brigata meccanizzata, che però non ne poteva più. All’esterno c’erano alcuni battaglioni d’assalto, altre brigate meccanizzate, le forze speciali dell’intelligence militare e i volontari russi inquadrati nelle forze di Kiev: tutte queste truppe possono essere impiegate, al massimo, nel preparare un’operazione di contrattacco.
Il dubbio se tenere a tutti i costi la cittadina rasa al suolo aveva, quindi, natura politica e non militare. Come già successo dopo la battaglia di Severodonetsk, anche qui la Russia non sembra avere molte chance di andare oltre: Mosca, infatti, non dispone di una quantità di carri armati moderni sufficiente a tentare un’offensiva per raggiungere i confini amministrativi dell’oblast e realisticamente non ne avrà ancora per alcuni anni. Sempre più spesso nei campi di battaglia i russi usano veicoli costruiti negli anni Settanta, Sessanta e persino Cinquanta, mancando di fatto la produzione. Insomma, caduta Avdiivka, almeno in questa regione le due parti potrebbero adottare una “soluzione coreana”, limitandosi a guardarsi con i droni e a lanciarsi pallottole a distanza.
Kiev si è quindi fatta i conti in tasca: nella recente intervista a ZDF lo stesso Syrsky ha spiegato che le forze ucraine adotteranno una disposizione difensiva allo scopo “di esaurire le forze nemiche e infliggere il massimo delle perdite, utilizzando le nostre fortificazioni, vantaggi tecnici, droni, guerra elettronica e mantenendo linee di difesa preparate”. Ha anche sottolineato che la pressione russa nel nord su Kupiansk ha valenza strategica, riguardando il controllo di un asse logisticamente importante: ecco, tutto questo non valeva per Avdiivka. Resta il dubbio di come la perdita di un “villaggione” impatterà sull’opinione pubblica occidentale: a seconda dei Paesi, passerà l’idea che non si è fatto abbastanza e che bisogna investire di più o che lo stallo è insuperabile e investire non serve a niente.
Mondo
I russi conquistano Avdiivka: l’avamposto ucraino che serviva a Putin e Zelensky per il consenso interno (e non solo)
Per Volodymyr Zelensky la città di Avdiivka era già persa da giorni. L’esercito russo l’aveva ormai accerchiata, così il presidente, a differenza di quanto fatto ad esempio nel corso della battaglia di Bakhmut, ha chiesto alla leadership militare di salvare la vita dei militari. Anche il generale di brigata Oleksandr Tarnavsky ha dichiarato di aver “mantenuto questa posizione finché ci ha permesso di scoraggiare e distruggere efficacemente il nemico”, ma adesso è arrivato il momento di lasciare la posizione per “preservare i militari e migliorare la situazione operativa”. Così i soldati ucraini hanno abbandonato questa cittadina da 32mila abitanti diventata la conquista (o perdita) più importante degli ultimi mesi in una guerra sempre più statica tra Russia e Ucraina.
Fino al 2021 Avdiivka era stata una cittadina con il territorio in gran parte occupato da aree agricole, impianti industriali e cumuli di terreno e minerali estratti dal suolo. Non era attraversata da nessun asse viario o ferroviario di importanza strategica. Degno di nota è il fatto che la distanza tra questo “villaggione” e le prime case di Donetsk, il capoluogo della regione occupato dai russi, è inferiore ai 10 chilometri: un margine così poco ampio, comunque, non fa la differenza con i droni e le artiglierie in uso a entrambe le parti.
Dal punto di vista militare, Avdiivka era diventata quello che si definisce un “saliente“, cioè a una parte del teatro di battaglia che si proietta in territorio nemico ed è circondato su due o tre lati. Questo fa sì che le truppe che lo occupano siano particolarmente vulnerabili: un saliente profondo corre il rischio di essere tagliato dal nemico formando una sacca in cui le truppe rimangono bloccate. Il saliente di Avdiivka in mano ucraina aveva una profondità di circa 9 chilometri e una larghezza che oscillava tra i 2 e i 3. La parte dell’oblast di Donetsk ancora sotto il controllo di Kiev si estende, oltre Avdiivka, per una profondità che oscilla tra i 50 e i 70 chilometri: una distanza infinita dopo un anno di avanzamenti di pochi metri o decine di metri al giorno. Esisteva una sola via di comunicazione che permetteva ai soldati di Zelensky di lasciare le aree fortificate senza abbandonare le armi e i veicoli. Era arrivato il momento di sfruttarla per non finire risucchiati dai russi.
L’atlante, insomma, offre un’immagine che – senza essere esperti di questioni militari – si riesce a capire bene: le battaglie che negli ultimi dieci anni si sono susseguite qui senza soluzione di continuità tra le truppe fedeli a Mosca e quelle ucraine e che hanno portato nella tomba quasi 50mila persone, tra civili e combattenti di entrambe le parti, hanno riguardato un fazzoletto di terra. Eppure, sia il Cremlino sia la Casa Bianca sia il presidente Zelensky si sono sbracciati per attribuire a questo scontro un valore simbolico che trascende quello che il piccolo centro ha dal punto di vista strategico. Il combattimento si è svolto solo per motivazioni non militari. La parte ucraina non ha voluto concedere all’avversario vantaggi politici, ne ha approfittato per farlo dissanguare e per dimostrare al mondo che senza i rifornimenti occidentali le forze di Kiev non hanno possibilità di andare all’offensiva. La parte russa, dopo che Bakhmut era stata conquistata da una compagnia di mercenari della Wagner, poi protagonista di un tentativo di colpo di Stato, aveva bisogno di annunciare la prima conquista di un territorio, una “gloria” che manca dai tempi di Severodonetsk e Lysichansk nel lontano giugno 2022.
Poco importa se la battaglia ha lasciato nei campi montagne di cadaveri e dove sorgevano le case e le chiese solo brandelli di muri. Ma non è ancora finita. Gli ucraini avevano all’interno del saliente un battaglione e tre brigate meccanizzate, un reggimento delle forze speciali della polizia e due battaglioni di fanteria: soprattutto, a darsi da fare è stata la 110ma brigata meccanizzata, che però non ne poteva più. All’esterno c’erano alcuni battaglioni d’assalto, altre brigate meccanizzate, le forze speciali dell’intelligence militare e i volontari russi inquadrati nelle forze di Kiev: tutte queste truppe possono essere impiegate, al massimo, nel preparare un’operazione di contrattacco.
Il dubbio se tenere a tutti i costi la cittadina rasa al suolo aveva, quindi, natura politica e non militare. Come già successo dopo la battaglia di Severodonetsk, anche qui la Russia non sembra avere molte chance di andare oltre: Mosca, infatti, non dispone di una quantità di carri armati moderni sufficiente a tentare un’offensiva per raggiungere i confini amministrativi dell’oblast e realisticamente non ne avrà ancora per alcuni anni. Sempre più spesso nei campi di battaglia i russi usano veicoli costruiti negli anni Settanta, Sessanta e persino Cinquanta, mancando di fatto la produzione. Insomma, caduta Avdiivka, almeno in questa regione le due parti potrebbero adottare una “soluzione coreana”, limitandosi a guardarsi con i droni e a lanciarsi pallottole a distanza.
Kiev si è quindi fatta i conti in tasca: nella recente intervista a ZDF lo stesso Syrsky ha spiegato che le forze ucraine adotteranno una disposizione difensiva allo scopo “di esaurire le forze nemiche e infliggere il massimo delle perdite, utilizzando le nostre fortificazioni, vantaggi tecnici, droni, guerra elettronica e mantenendo linee di difesa preparate”. Ha anche sottolineato che la pressione russa nel nord su Kupiansk ha valenza strategica, riguardando il controllo di un asse logisticamente importante: ecco, tutto questo non valeva per Avdiivka. Resta il dubbio di come la perdita di un “villaggione” impatterà sull’opinione pubblica occidentale: a seconda dei Paesi, passerà l’idea che non si è fatto abbastanza e che bisogna investire di più o che lo stallo è insuperabile e investire non serve a niente.
Articolo Successivo
Biden: “Non sono sorpreso da morte Navalny, ma indignato. Putin è responsabile” (video)
Gentile lettore, la pubblicazione dei commenti è sospesa dalle 20 alle 9, i commenti per ogni articolo saranno chiusi dopo 72 ore, il massimo di caratteri consentito per ogni messaggio è di 1.500 e ogni utente può postare al massimo 150 commenti alla settimana. Abbiamo deciso di impostare questi limiti per migliorare la qualità del dibattito. È necessario attenersi Termini e Condizioni di utilizzo del sito (in particolare punti 3 e 5): evitare gli insulti, le accuse senza fondamento e mantenersi in tema con la discussione. I commenti saranno pubblicati dopo essere stati letti e approvati, ad eccezione di quelli pubblicati dagli utenti in white list (vedere il punto 3 della nostra policy). Infine non è consentito accedere al servizio tramite account multipli. Vi preghiamo di segnalare eventuali problemi tecnici al nostro supporto tecnico La Redazione
Giustizia & Impunità
Pioltello, una sola condanna per il disastro ferroviario. 8 assoluzioni, anche l’ex ad di Rfi: “Non sapevano del giunto ammalorato”
Politica
Alla Camera la sfiducia a Santanchè. La ministra: “Mozione su fatti precedenti al mandato nel governo” | Diretta. Mozione contro Nordio: banchi vuoti a destra
Mondo
Ucraina, è corsa alle terre rare: Putin offre a Trump un accordo su quelle del Donbass. Onu, Usa e Russia votano insieme contro Kiev
Roma, 25 feb. (Adnkronos Salute) - "Il paziente oncologico ha un'immunodeficienza che è legata a molti fattori. Noi pensiamo ai trattamenti chemioteratici, ma anche avere un grande intervento chirurgico genera una condizione di immunodeficienza. E' la condizione di per sé, con tutte le terapie, che espone a questo tipo di infezioni". Così Sandro Pignata, direttore dell'Oncologia medica presso l'Irccs Istituto nazionale tumori Fondazione G. Pascale di Napoli e responsabile scientifico della Rete oncologica campana (Roc), nel suo intervento all'incontro organizzato oggi a Roma da Gsk in occasione della Settimana della prevenzione dal Fuoco di Sant'Antonio (24 febbraio-2 marzo). Lo specialista ricorda inoltre che "non dobbiamo mai dimenticare che il nostro Paese invecchia ogni anno e la popolazione diventa più anziana: molti dei nostri pazienti sono proprio in quella fascia di età più esposta al rischio di infezioni da Herpes zoster".
A causa di "una patologia che è prevenibile", è assurdo che spesso "questi pazienti durante il loro corso di cura" siano costretti "a interrompere o ritardare le somministrazioni - osserva Pignata - Ovviamente l'intensità delle somministrazioni delle cure è un fattore importante, la capacità di portare avanti nei tempi tutte le radioterapie" e i trattamenti "è un fattore importante nella definizione degli outcome", cioè i risultati, in termini di salute. "Forse, oltre che nella popolazione, anche nei medici la consapevolezza" sull'importanza della vaccinazione "deve essere ancora raggiunta pienamente - sottolinea - Un paziente oncologico ha tanti bisogni. Spesso l'oncologo fa una scelta di priorità su cosa affrontare prima. Per questa ragione suggeriamo di consigliare a percorso vaccinale, soprattutto all'inizio della malattia, quando il numero dei bisogni è più contenuto".
Per quanto riguarda gli aspetti organizzativi, "e qui parlo non da oncologo, ma da coordinatore di una rete, almeno della mia regione - illustra Pignata - i centri vaccinali pubblici, nel tempo, sono stati strutturati soprattutto per la pediatria e non per l'adulto. Abbiamo scelto quindi un modello ibrido, che ovviamente utilizzasse i centri vaccinali delle Asl, coinvolto la medicina generale che si è resa disponibile, ma abbiamo anche ragionato sulla possibilità di aprire ex-novo centri vaccinali all'interno dei centri oncologici, per varie ragioni. Intanto - precisa - per consentire a più pazienti possibili di ricevere la vaccinazione, ma anche perché il paziente oncologico vuole seguire tutte le attività legate alla propria malattia nell'ospedale dove viene curato, quindi accetta e condivide con maggiore favore la possibilità di essere vaccinato nella sede dove effettua tutte le altre terapie. Abbiamo scritto un documento che definisce questi percorsi. Con una discreta soddisfazione - conclude - credo che più pazienti oggi, rispetto al passato, siano vaccinati, ma siamo ancora al di sotto del numero di quelli che ne trarrebbero vantaggio".
Milano, 25 feb. (Adnkronos) - La sentenza di condanna a cinque anni e tre mesi per Marco Albanesi, nella sua qualità di capo Unità manutentiva di Rfi, per disastro ferroviario, omicidio colposo e lesioni colpose, è sancita dalla "colposa sottovalutazione del rischio, a lui noto, di rottura del giunto isolante incollato ammalorato, all'altezza del Km 13+400", nel comune di Pioltello, che causò il deragliamento di un treno regionale che il 25 gennaio 2018 uscì dai binari causando la morte di tre passeggeri e di un centinaio di feriti.
Nella nota del presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia - la risoluzione del Csm consente di spiegare le sentenze più complesse in attesa delle motivazioni - si evidenzia come il collegio presieduto dalla giudice Elisabetta Canevini ha assolto gli ex dirigenti - l'ex ad Maurizio Gentile e gli ex manager Umberto Lebruto, Vincenzo Macello e Andrea Guerini - "tutti per non aver commesso il fatto", data "l'assenza di prova in ordine alla realizzazione di condotte commissive od omissive ad essi rimproverabili, considerazione dei rispettivi ruoli ricoperti all'interno dell'assetto organizzativo di Rete ferroviaria italiana, nonché degli effettivi flussi informativi circa l'ammaloramento del giunto e l'inadeguatezza della manutenzione che ne ha determinato la rottura la mattina del 25 gennaio 2018, cagionando così il tragico disastro".
Il Tribunale - in coerenza con l'indirizzo interpretativo già accolto dalla Suprema Corte di Cassazione nella vicenda relativa al disastro ferroviario di Viareggio - "ha escluso che le norme cautelari astrattamente violate, il cui rispetto avrebbe evitato il verificarsi del disastro, avessero ad oggetto specifiche cautele antinfortunistiche, ritenendo che in realtà esse attenessero alla gestione di un rischio ontologicamente diverso, relativo alla sicurezza della circolazione ferroviaria e alla tutela della pubblica incolumità: e sulla base di questo inquadramento giuridico della vicenda ha vagliato la sussistenza, e l'osservanza in concreto delle posizioni di garanzia riferibili ai singoli". Le motivazioni del processo di primo grado saranno rese note tra 90 giorni.
(Adnkronos) - Quello spezzone che manca, circa 23 centimetri, sbalzato a "diversi metri di distanza" è per la procura la causa del deragliamento e grazie a una telecamera che punta sul tratto ferroviario emerge che "I problemi che stava dando quel giunto duravano da qualche giorno". Al passaggio del treno su quel tratto si generano scintille, le prime scintille già a partire dal 17 gennaio, proseguono e aumentano intensità e frequenza" con l'incremento dell'erosione.
Il giorno del deragliamento "le scintille sono contenute al passaggio delle prime carrozze, poi c'è quasi una fiammata" mentre il convoglio viaggia a "140 chilometri l'ora", infine "basta scintille" perché "il giunto è saltato" e le ultime carrozze non viaggiano più sui binari. "Possiamo dire con certezza che è la rottura del giunto che ha determinato lo svio del treno" è la sintesi dei pm Leonardo Lesti e Maura Ripamonti durante la requisitoria. "E' evidente che questa rottura determina l'evento e la morte di tre persone e il ferimento di circa 200" di cui deve rispondere "chi non ha provveduto alla corretta manutenzione del giunto" che si trovava "in condizioni di forte degrado" è la tesi della procura.
Su quella linea in cui passano circa 100 treni al giorno il malfunzionamento viene rilevato - secondo la tesi della procura fin dal febbraio 2017 o addirittura anche prima - ma la sostituzione dei giunto non arriva mai, la strategia di Rfi, per la pubblica accusa, sembra essere "il giunto si cambia se è rotto, se non è rotto si tira avanti". L’incidente mortale di Pioltello "non è un fatto occasionale, ma riconducibile alla colpa che arriva fino all'amministratore delegato Gentile". Il non aver riparato il giunto lungo i binari "è una sorta di scorrettezza nei confronti dello Stato" ma "anche una forma di slealtà" nei confronti di chi viaggiava: "c'erano 250 passeggeri, gente che andava a lavorare e si fidava del treno". Una tesi accusatoria che non ha convinto il tribunale.
(Adnkronos) - Lebruto e Macello, presenti in aula, si sono lasciati andare a qualche lacrima di commozione dopo l'assoluzione, mentre alcuni dei passeggeri che viaggiavano sul treno deragliato hanno lasciato l'aula in silenzio e con tutt'altro stato d'animo. Di fatto il tribunale ha condannato solo l'allora capo dell'Unità manutentiva di Rfi Marco Albanesi (la procura aveva chiesto 6 anni e 10 mesi) per disastro ferroviario colposo, omicidio e lesioni colpose, ritenendolo responsabile sul territorio del mancato controllo o meglio come "colposa sottovalutazione del rischio" come spiega lo stesso Tribunale. Lui, in solido con il responsabile civile Rfi, dovrà risarcire le parti civili (una cinquantina) con una provvisionale di 25mila per ciascuno dei passeggeri che si sono costituiti nel processo e di 50mila al sindacato Filt - Cgil Lombardia.
Gli ex manager per cui la procura aveva chiesto la condanna sono invece stati assolti dall'accusa di disastro ferroviario colposo e omicidio e lesioni colpose "per non aver commesso il fatto" e "perché il fatto non sussiste" rispetto all'accusa di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro. I giudici hanno anche assolto - come chiesto dalla stessa procura - Moreno Bucciantini, allora capo reparto Programmazione e controllo dell’Unità territoriale linee Sud di Rfi, Ivo Rebai, ai tempi responsabile della Struttura operativa Ingegneria della Dtp e Marco Gallini, allora dirigente della Struttura organizzativa di Rfi.
Sono le 7.01 del 25 gennaio 2018 quando il treno 10452 esce dai binari e tre delle sei carrozze, dopo il deragliamento, si ribaltano. Tra le lamiere della carrozza numero 3 muoiono Pierangela Tadini, 51 anni, Giuseppina Pirri, 39 anni, e Ida Maddalena Milanesi, 61, dottoressa dell'ospedale neurologico Carlo Besta di Milano. Dall'ispezione della sede ferroviaria "viene accertato sul binario una rottura della superficie della rotaia" che diventerà il 'punto zero' per l'inchiesta.
(segue)
Roma, 25 feb. (Adnkronos) - Luca Attanasio, "convinto che la sua missione istituzionale non potesse prescindere dall'impegno sociale, è sempre rimasto a fianco degli ultimi, esprimendo l'ideale del diplomatico dal volto umano, nella certezza che nessuno, in qualsiasi parte del mondo, dovesse essere lasciato indietro". Lo ha affermato il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, ricordando in Aula l'ambasciatore Attanasio, ucciso insieme al carabiniere Vittorio Iacovacci e all’autista Mustapha Milambo in un agguato nella Repubblica democratica del Congo il 22 febbraio di quattro anni fa.
"Oggi rendiamo omaggio alla memoria di un uomo -ha aggiunto il presidente della Camera- che ha dedicato la propria esistenza al servizio del Paese e a sostegno della cooperazione internazionale. Ma non possiamo non ricordare il coraggio e l’alto senso del dovere dimostrati dal carabiniere scelto Iacovacci che, nel tentativo di proteggere l’ambasciatore, non ha esitato a fargli da scudo con il proprio corpo. Un gesto nobile e generoso che gli è valso il conferimento alla memoria della Medaglia d’oro al valor militare e che riflette i valori più autentici che contraddistinguono le donne e gli uomini dell’Arma".
"Un ringraziamento va anche a tutto il personale civile e militare che, spesso esponendosi a pericoli estremi, svolge un ruolo cruciale nella promozione della pace e dell’assistenza alle popolazioni più vulnerabili in zone di crisi e contesti ad alto rischio. A loro esprimo la mia profonda gratitudine e riconoscenza. Ai familiari dell’ambasciatore Luca Attanasio e di Vittorio Iacovacci, oggi qui presenti, desidero rinnovare la vicinanza mia personale e della Camera dei deputati. Il loro -ha concluso Fontana- è il dolore dell’Italia intera, che non può e non deve dimenticare il sacrificio di chi l’ha servita con onore e disciplina". L'Aula ha quindi osservato un minuto di silenzio.
Kinshasa, 25 feb. (Adnkronos/Afp) - Il procuratore della Corte penale internazionale (Cpi), Karim Khan, è arrivato nella Repubblica Democratica del Congo. Lo ha comunicato il suo ufficio, mentre è in atto una recrudescenza dei combattimenti nella parte orientale del Paese. Nelle ultime settimane, l'M23, sostenuto dal Ruanda, ha conquistato due importanti città nella Repubblica Democratica del Congo orientale, rafforzando così il suo potere nella regione da quando ha ripreso le armi alla fine del 2021.
"Siamo estremamente preoccupati per i recenti sviluppi in Congo, sappiamo che la situazione è grave, soprattutto nella parte orientale", ha detto Khan ai giornalisti al suo arrivo nella capitale Kinshasa. "Il messaggio deve essere trasmesso in modo molto chiaro: nessun gruppo armato, nessuna forza armata, nessun alleato di gruppi armati o forze armate ha un assegno in bianco. Devono rispettare il diritto umanitario internazionale".
Secondo gli esperti delle Nazioni Unite, l'M23 è supportato da circa 4.000 soldati ruandesi. Sin dalla sua rinascita, gli scontri tra il gruppo e le forze armate congolesi hanno provocato una crisi umanitaria in una regione flagellata da tre decenni di guerre. "Questo è il momento in cui vedremo se il diritto penale internazionale può soddisfare le richieste avanzate dal popolo della Repubblica Democratica del Congo, ovvero l'applicazione equa della legge", ha affermato Khan. "Il popolo della Rdc è prezioso quanto il popolo dell'Ucraina, il popolo di Israele o della Palestina, le ragazze o le donne dell'Afghanistan", ha aggiunto.
Khan incontrerà il presidente Felix Tshisekedi, alcuni ministri, il rappresentante nazionale del Segretario generale delle Nazioni Unite Bintou Keita, nonché le vittime del conflitto e membri della società civile. La prima indagine avviata dalla Cpi nella Repubblica Democratica del Congo risale al 2002. Da allora, il tribunale ha condannato tre persone per crimini commessi nel Paese. Nel 2023, la procura della Cpi ha inoltre avviato un'indagine sulle accuse di crimini commessi a partire da gennaio 2022 nella provincia del Nord Kivu, nella parte orientale della nazione. L'ufficio di Khan, che ha visitato il Paese nel maggio 2023, ha dichiarato all'inizio di questo mese che l'attuale situazione nella Rdc orientale "fa oggetto di un'indagine che è in corso".
Roma, 25 feb. (Adnkronos Salute) - "L'impegno di Danone per far conoscere alle persone l'importanza di un microbiota in salute nasce 35 anni fa, quando lanciammo Activia, un prodotto che ha la vocazione di migliorare il benessere intestinale di tutti gli italiani. Oggi diamo un'accelerazione a questo impegno grazie alla nuova campagna con la quale lanciamo un nuovo strumento: un questionario online molto semplice, creato su basi scientifiche e in grado di dare un risultato, una specie di assessment, sullo stato di salute del microbiota intestinale dei rispondenti". Così Yoann Steri, digital & data director di Danone Italia, in occasione dell'evento 'Innovazione e benessere: il microbiota al centro', organizzato dall'azienda, illustra l'iniziativa del questionario online validato scientificamente da Giovanni Barbara, tra i massimi esperti di microbiota, che analizza lo stato del microbiota intestinale e consente, in modo semplice, di indicare come le abitudini alimentari e, in generale, lo stile di vita influenzano lo stato del microbiota.
"Attraverso il questionario, il rispondente può avere indicazioni e risultati che gli permettono di migliorare il suo stato di salute attraverso l'analisi di diversi fattori, come lo stress, l'attività fisica, la qualità del sonno e la nutrizione, in cui Activia ha un ruolo molto importante", conclude.