Cultura

“Assalto alle Alpi”, salvare le nostre montagne per salvare noi stessi: l’ultimo (consigliatissimo) libro di Marco Albino Ferrari

di Alberto Marzocchi

Ma in fondo – alla fine di tutti i bei discorsi – perché non posso buttare la mia bottiglia di plastica giù dal sentiero, partecipare al concerto da 30mila persone in cima alle Dolomiti, a 2.200 metri di quota, sgasare col mio macchinone dopo una settimana di su e giù dalla seggiovia? E perché, come comunità, non possiamo volere una nuova pista da sci, servita da un nuovo impianto a fune, col suo bel sistema di innevamento artificiale (con tanto di bacino, ovvio) e radere al suolo un’abetaia, mentre poco più a valle tiriamo su un villaggio di seconde case?

La prima, parziale risposta – che però dice tutto e niente – è già contenuta nel sostantivo del titolo, Assalto alle Alpi (Einaudi, 144 pagine, 12 euro). Ma la risposta più profonda – alla fine di tutti i bei discorsi – si dipana nel corso del libro. La posizione da cui dovremmo guardare il mondo – “dovremmo”, è dunque l’assunzione del singolo di una specifica morale – si richiama al principio responsabilità di Hans Jonas: poiché non esistono diritti per le generazioni che ancora non sono nate, abbiamo noi il dovere – come individui e come collettività – di preservare le nostre montagne. Se è vero come è vero – è il principio di partenza di Marco Albino Ferrari – che le montagne hanno un valore di per sé. Un valore che non ha prezzo.

Lontano dai riflettori che tanto piacciono ad alcuni influencer delle terre alte – che fanno avanti e indietro da casa con voli intercontinentali – ne Assalto delle Alpi Ferrari plana dalle Giulie alle Marittime, disvelando storia, abitudini, bellezza e disastri delle montagne più ricche di biodiversità del mondo. Da luogo inospitale, da cui avere paura, a topos idealizzato della cultura romantica dell’Ottocento; fino alla cantierizzazione del Dopoguerra, lo spopolamento e la doverosa preservazione, con tanto di proposte di leggi, dei giorni nostri. Leggere l’ultimo libro di Ferrari costringe a fare i conti con noi stessi, con la nostra morale, col nostro punto di vista – e le nostre azioni – sul mondo. Chi non accetta questa impostazione, troverà il libro fastidioso, invadente, e forse lo abbandonerà prima della fine.

Tra le righe, nel non detto, Ferrari vede nella decrescita felice la soluzione ai nostri problemi. Ma tra la conclusione a cui arriva il figlio del protagonista de Lo smeraldo di Mario Soldati, mentre osserva un mondo irriconoscibile, squassato dalla guerra atomica, in un futuro distopico (“allora papà, per non fare danni nel mondo, è meglio il niente, è meglio non nascere“) e la costruzione di un nuovo bacino per la raccolta dell’acqua (che serve l’innevamento programmato) e “l’ampliamento di una pista”, fatti dalla società Dolomiti Superski, che gestisce uno dei comprensori più grandi al mondo con 1.200 chilometri di piste; ecco, tra i poli opposti di queste prospettive, la realistica proposta di Ferrari (che sottoscriviamo) è la seguente: non si costruisca più nulla che abbia un impatto irreversibile per le nostre montagne. Detto in altre parole: basta nuovi tracciati per la monocultura dello sci, in mezzo ai boschi, basta nuove cabinovie; si mantenga ciò che già c’è (ed è già molto). Perché, per dirla con Mario Rigoni Stern: “Vorrei che tutti potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera, i larici arrossati dall’autunno sui cigli delle rocce, il guizzare dei pesci tra le acque chiare dei torrenti e le api raccogliere il nettare dai ciliegi in fiori”.

Mail: a.marzocchi@ilfattoquotidiano.it

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