Marco Onado, docente di istituzioni finanziarie all’università Bocconi di Milano, ex commissario Consob ed editorialsta di diverse testate, ha da poco mandato in libreria una raccolta dei suoi interventi usciti mensilmente su Investire negli ultimi 5 anni. Il volume, edito da Guerini Next si intitola “Watchdog. A guarda del risparmio nell’era della finanza galoppante” e tocca molti temi di stretta attualità su cui abbiamo scambiato alcune considerazioni con l’autore.
Professor Onado, per le banche italiane si è appena chiuso un anno d’oro con profitti complessivi per 40 miliardi di euro. Il merito è però soprattutto dei ripetuti rialzi dei tassi decisi dalla banca centrale europea negli ultimi due anni. Come valuta l’ipotesi di una tassazione su quelli che, a torto o a ragione, vengono definiti extraprofitti?
Per rispondere è utile fare un passo indietro e tornare alla grande crisi finanziaria del 2008. Un evento che ha costretto le banche centrali ad abbassare i tassi fino a livelli mai visti primi, in alcuni casi scendendo addirittura in territorio negativo. Ciò ha comportato per le banche una fortissima compressione dei margini di intermediazione (la differenza tra interessi pagati ai depositanti e quelli chiesti a chi contrae un prestito). Un fenomeno accusato in modo particolare dalle banche italiane che sono ancora molto focalizzati sull’attività bancaria tradizionale, ovvero raccogliere risparmi ed erogare finanziamenti. Il margine di interesse cumulato del sistema bancario italiano tra il 2008 e il 2021 scende da 44,8 a 21,8 miliardi di euro, insomma si dimezza.
Poi, la necessità di contrastare l’inflazione, spinge le banche centrali a invertire la rotta sui tassi che riprendo a salire piuttosto velocemente. Quindi prima una compressione e poi una spinta energica, ciò spiega il boom dei profitti. È vero che alcuni paesi hanno applicato una tassazione aggiuntiva, tuttavia non sono del tutto d’accordo con la definizione di extraprofitti, per le ragioni che ho spiegato.
Una parte significativa di questi utili verrò distribuita agli azionisti, non sarebbe meglio mettere un po’ di fieno in cascina?
Bisogna ricordare che dopo la crisi e alle prese con un aumento dei crediti deteriorati, in molti casi i soci delle banche sono stati chiamati a sottoscrivere aumenti di capitale, sono stati insomma anni “dolorosi”, da un punto di vista finanziario. La distribuzione degli utili è quindi anche una sorta di restituzione e risarcimento. Tuttavia è vero che forse si sta un po’ esagerando. Quello attuale sembra essere uno scenario eccezionale più che una nuova normalità, pertanto una maggior prudenza sarebbe stata consigliabile.
La stessa Bce ha “rimproverato” le banche italiane di essere molto lente nel trasferire i benefici dell’aumento dei tassi ai loro depositanti, con interessi che sono saliti a passo di lumaca quando non sono rimasti fermi…
Guardi, nel 1990 in Italia c’erano 1300 gruppi bancari, oggi, dopo un processo di consolidamento, sono 139. In molte zone del paese c’è una sorta di duopolio Intesa Sanpaolo – Unicredit, quindi la concorrenza è in molti casi limitata e ciò spiega anche la lentezza nel proporre condizioni più vantaggiose ai clienti.
Il bitcoin ha rivisto quota 50mila dollari, sembra aver superato l’impatto dei tanti scandali e frodi che si sono succeduti negli ultimi anni. Lei però rimane molto scettico sulle criptovalute, come mai?
Non si tratta di veri e propri schemi Ponzi ma sono certamente delle attività speculative su larga scala. In questi anni è stato dimostrato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il bitcoin a tutto serve tranne che a fungere da moneta, ad esclusione dei casi in cui le esigenze di anonimato prevalgono sulle considerazioni economiche. Quanto all’utilizzo a fini speculativi siamo nell’ambito delle attività tra adulti consenzienti ma è bene esserne consapevoli. Per loro natura le criptovalute sono difficili da regolamentare ma il mio auspicio è che le autorità nazionali si coordino meglio a fini di controllo e regolamentazione.
Nei suoi interventi Lei ha parlato anche della crisi scatenata dalla guerra in Ucraina e dell’effetto, sinora deludente, delle sanzioni contro la Russia..
La storia insegna che le sanzioni spesso si ripercuotono più su chi le pone che su chi le subisce e questo sta puntualmente accadendo anche questa volta. Del resto i principali promotori di queste misure sono stati gli Usa, avendo la chiara consapevolezza che il peso maggiore lo avrebbe sopportato l’Europa.
Secondo alcuni osservatori le sanzioni pongono dei rischi per il ruolo di valuta globale del dollaro. Pensa siano timori fondati?
Il rischio di un’ erosione del ruolo del dollaro esiste ma non dipende dalle sanzioni quando piuttosto dalle conseguenze politiche che le crisi in Ucraina e in Medio Oriente stanno provocando. Ovvero coalizzano paesi prima più distanti come i Brics, di cui, è bene ricordare fanno parte sia Russia che Cina e a cui si stanno unendo altri paesi come Iran e Arabia Saudita. L’eventuale spodestamento del dollaro non è comunque imminente e non avverrà come un terremoto, sarà un processo molto lungo e graduale.
Inevitabile?
Penso che sia un processo che si potrebbe invertire solo se gli Stati Uniti cambiassero atteggiamento e si concentrassero un po’ meno esclusivamente sui loro interessi.
Cosa pensa del no italiano alla ratifica della riforma del Mes?
Una questiona economica a cui è stato impropriamente affibbiato un significato politico. Anche qui serve fare una breve ricostruzione. I paesi europei si sono lanciati nel progetto della moneta unica quasi alla cieca, sperando che dalla sua adozione generassero automaticamente una serie di adattamenti e strutture indispensabili per la costruzione di una vera unione. Come prevedibile così non è stato. Poi, sotto i colpi della crisi del debito sovrano del 2012, si è deciso di costruire almeno 3 pilastri: una vigilanza bancaria unica, un meccanismo di soluzione delle crisi, il mes appunto, e infine un’assicurazione comune sui depositi. Di questi tre punti al momento è stato realizzato sotto il primo. Ma anche gli altri due sono necessari e non c’è dubbio che questa sia la direzione verso cui bisogna muoversi se si vuole mantenere in vita il progetto di unione monetaria.