“Non vogliamo che il nostro spettatore stia sul divano a scaccolarsi”. In questa frase è racchiusa tutta la sublime e (apparentemente) volgare ribellione poetica firmata Damiano e Fabio D’Innocenzo che alla Berlinale 2024 portano in prima mondiale Dostoevskij. Serie Sky in sei puntate, anche se loro stessi si confondono (o non si confondono) definendolo “il film” che come sempre nei loro lavori (Favolacce, America Latina) riecheggia un’inquietudine irregolare e sporca, espone una resa dei conti thriller che si procrastina e dilata febbrilmente nell’ossessività dell’inconscio individuale del protagonista.
Qui si tratta di Enzo Vitiello (Filippo Timi, ruolo della carriera), poliziotto a capo di un team di sbirri che indaga sugli omicidi del serial killer chiamato Dostoevskij. Quest’ultimo, infatti, lascia lunghe descrizioni e notazioni in stampatello su fogli di carta dei suoi efferati delitti sui luoghi del crimine. Vitiello sembra ossessionato da questi foglietti e allo stesso tempo vive con catatonica impotenza un rapporto controverso con la figlia adolescente che spesso scompare tra i meandri putridi di luoghi inospitali e bui. Ovviamente quando si tratta di una messa in scena dei D’Innocenzo le coordinate spaziali, come quelle temporali e genericamente culturali, sfumano in una palpitante misteriosità e concreta astrattezza. Quindi non ci sono riferimenti specifici e peculiari di ordine geografico e storico, come fossimo sospesi in un limbo periferico.
Due le sequenze in cui non si sfugge alla forsennata osservazione imposta dai D’Innocenzo su qualcosa che consciamente non avremmo intenzione di fare: la dimostrazione visiva dell’efferatezza dei delitti del killer con il montaggio lento di decine e decine di foto con i dettagli delle modalità degli omicidi; ma soprattutto una colonscopia ospedaliera effettuata su Vitiello che abbatte ogni barriera del punto di vista. I D’Innocenzo nei meandri dei budelli intestinali del protagonista (anche se non sappiamo se siano quelli di Timi o meno) giocano la loro solita scommessa di visione, provocatoria e ansimante, sozza e impervia, anche se con obiettivo rigenerante e pieno di speranza. Cruciale, comunque, l’apporto di una scrittura solida e ramificata che all’intimità del rapporto a due padre-figlia (l’intero blocco centrale, apparente deviazione) sa farsi di genere nei meandri del giallo più tradizionale. Filippo Timi, dicevamo, alla prova (riuscita) della vita. Come il cast di contorno (Carlotta Gamba, Gabriele Montesi, Federico Vanni) che punteggia il racconto ma mai esonda oltre il protagonista e la sua ossessione. Girato con naturale e sperimentale maestria in pellicola. Dostoevskij sarà prima in sala – sei ore di durata – con Vision e poi su Sky.