La storia dell’acciaieria di Taranto inizia il 9 luglio 1960 con la posa della prima pietra. Un anno più tardi ecco l’avvio del Tubificio e il 24 ottobre 1964 l’attivazione del primo altoforno. Qualche mese più tardi, il 10 aprile 1965, lo stabilimento fu inaugurato ufficialmente dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Era l’Italsider, era lo Stato. Lo resterà per trent’anni. La privatizzazione avviene infatti nel 1995 quando il grande polo siderurgico di Taranto, che dal 1989 si chiama già Ilva, passa al gruppo Riva. Saranno anni ruggenti per la produzione mentre iniziano a serpeggiare sempre più dubbi riguardo ai problemi ambientali, senza considerare la vicenda la vicenda della Palazzina Laf, il primo caso di mobbing in Italia recentemente portato sul grande schermo da Michele Riondino.

Il sequestro e i commissari
La questione ambientale diventa centrale nel 2012. È il 26 luglio quando il gip di Taranto Patrizia Todisco, nell’ambito dell’indagine denominata “Ambiente Svenduto”, firma le prime ordinanze di custodia cautelare e dispone il sequestro degli impianti dell’area a caldo. Il 3 dicembre arriva il primo decreto Salva Ilva che autorizza la prosecuzione della produzione. A maggio dell’anno successivo, ancora la stessa giudice dispone un maxi-sequestro da 8 miliardi di euro sui beni e sui conti del gruppo Riva, poi l’ordinanza viene annullata dalla Corte di Cassazione. Sempre nel 2013, è il 4 giugno quando il governo Letta approva un decreto per la gestione commissariale: Enrico Bondi commissario, Edo Ronchi sub commissario.

Dal Piano ambientale alle offerte
Nel 2014, a marzo, viene approvato il il Dpcm contenente il Piano ambientale. A maggio Piero Gnudi diventa nuovo commissario governativo al posto di Bondi e nell’agosto 2014 Corrado Carrubba prende il posto di Ronchi. A gennaio 2015 ecco la prima amministrazione straordinaria e i commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si affianca Enrico Laghi. Il 4 gennaio 2016 il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi avvia l’iter per l’assegnazione ai privati dell’acciaieria. Il 30 giugno – quando al ministero si è nel frattempo insediato Carlo Calenda – restano solo due cordate: Am Investco formata da ArcelorMittal e il gruppo Marcegaglia e Acciaitalia nella quale compaiono invece Cdp, Arvedi e Delfin, la cassaforte di Leonardo Delvecchio. Il 6 marzo 2017 scade il termine utile per la presentazione delle offerte vincolanti e alla cordata italiana si affianca il colosso siderurgico Jindal.

L’Ilva a Mittal e la lunga trattativa
Il 26 maggio i commissari straordinari propongono la cordata Am Investco, nonostante il parere dei tecnici giudichi migliore il piano industriale di Acciaitalia e definisca “incoerente” quello della cordata vincitrice. Il 5 giugno il ministro Calenda firma il decreto di assegnazione ad ArcelorMittal ma fino a quando resterà al Mise non riuscirà a convincere i sindacati a firmare l’intesa con gli acquirenti. Avverrà solo nel 2018, quando al vertice del ministero c’è già Luigi Di Maio, e solo dopo che ArcelorMittal ha presentato l’integrazione al piano industriale originario. La trattativa si chiude il 6 settembre quando viene firmata l’ipotesi di accordo sulla cessione dopo una lunga trattativa con le sigle metalmeccaniche. Le assunzioni partono l’1 novembre.

Lo scudo penale, la causa e Invitalia
Esattamente un anno più tardi, il 3 novembre 2019, il governo Lega-M5s cancellato lo scudo penale (introdotto per la prima volta con decreto nel gennaio 2015) e ArcelorMittal deposita a stretto giro l’atto di citazione per recedere dal contratto di affitto e successivo acquisto dell’Ilva. Inizia una causa in tribunale nella quale Mittal viene accusata di voler sostanzialmente fuggire e soprattutto di mettere a repentaglio la sopravvivenza degli impianti. Il 4 marzo 2020 viene firmato un accordo tra i commissari Ilva e ArcelorMittal che prevede una trattativa per verificare le condizioni per la sottoscrizione di una nuova intesa sulla governance. Nel mese di dicembre ArcelorMittal e Invitalia, l’agenzia per gli investimenti controllata dal ministero dell’Economia, firmano l’accordo: lo Stato ritorna dentro l’Ilva con una quota di minoranza.

L’accordo e gli slittamenti
Il 15 aprile 2021, con il versamento della relativa quota, viene sancito l’ingresso di Invitalia nel capitale sociale con una partecipazione del 38% del capitale sociale. La restante partecipazione del 62% resta in capo ad ArcelorMittal. Il gruppo viene rinominato Acciaierie d’Italia. Il 31 maggio 2022 Acciaierie d’Italia e i commissari dell’ex Ilva trovano l’accordo che prevede lo slittamento al 2024 della salita dello Stato al 60% della società siderurgica attraverso Invitalia. Dopo un anno in cui i dati della produzione sono inferiori al previsto (era stato così anche nel 2022) e nonostante i ripetuti tentativi, ArcelorMittal e Invitalia non riescono a trovare un accordo né sulla ricapitalizzazione né sull’acquisizione degli impianti.

La grande lite e il nuovo divorzio
I privati si rifiutano infatti di versare la loro quota parte di quanto già deliberato dal Cda, dove sono rappresentati, per sostenere le casse dell’ex Ilva in gravi difficoltà: 1,3 miliardi di euro in totale, di cui circa 900 milioni spetterebbero al colosso franco-indiano dell’acciaio. Tra il socio pubblico e gli indiani lo scontro è ormai aperto. Tra i nodi anche i pagamenti per l’indotto. Il 18 febbraio 2024 Invitalia chiede l’amministrazione straordinaria, che il governo potrebbe attivare prestissimo di fatto commissariando l’impresa alla ricerca di nuovi investitori. I privati, invece, tentano la mossa disperata: la richiesta di un concordato in bianco per trovare un accordo sui debiti con i fornitori che ammontano a oltre un miliardo di euro, di cui 500 milioni già scaduti. Ma il tribunale di Milano, cassando l’istanza di composizione negoziata della crisi, aveva già chiarito che non c’è più tempo.

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