“Non possiamo sempre sperare nella magistratura come garante di qualsiasi contenzioso. Se ci sono dati e numeri inequivocabili, il legislatore deve intervenire. Invece, rispetto al caso Pfas, la politica in questi anni ha deciso consapevolmente di non intervenire. Ma da che parte stanno le istituzioni, con le lobby industriali o con l’interesse pubblico?”. Giuseppe Ungherese, Responsabile campagne inquinamento di Greenpeace Italia, ha appena pubblicato un saggio inchiesta, Pfas. Gli inquinanti eterni e invisibili nell’acqua (Altreconomia), in cui ripercorre la storia di queste sostanze, tracciando una mappa del rischio ancora presente nel nostro Paese e raccontando come la protesta dal basso, specie in Veneto, abbia finalmente portato il problema alla luce del sole. “Nella zona di Alessandria c’è una fabbrica ancora attiva, che arriva a inquinare il bacino del Po. La situazione è nota dal 2007 eppure solo oggi – nell’alessandrino – si cominciamo a fare i primi screening sulla popolazione residente, e su un campione minuscolo. È incredibile”.

Possiamo anzitutto ricordare cosa sono i Pfas?
I Pfas sono composti poli e perfluoroalchilici, che non esistono in natura e sono caratterizzati dal legame carbonio-fluoro. Queste molecole, proprio per il legame carbonio-fluoro, sono di fatto indistruttibili, perché questo legame chimico è difficilissimo da rompere.

Come furono scoperte queste sostanze e dove si trovano?
Un po’ per caso, anzi per errore, perché di fatto, come racconto nel libro, tutto nacque in uno degli stabilimenti statunitensi della Dupont, dove provavano a creare i freon, i famosi gas responsabili del buco dell’ozono. Si capì subito che quella sostanza aveva caratteristiche uniche, resisteva alle alte temperature, resisteva alla corrosione, era repellente all’acqua, alle macchie, all’olio, aveva un basso coefficiente di attrito: da lì è iniziato l’uso ovunque. Dalle padelle antiaderenti, agli imballaggi alimentari soprattutto in carta, nella carta igienica, al filo interdentale e ai tappeti. Stesso discorso per i rivestimenti di tappezzeria e divani, i vestiti, i trucchi, i cosmetici. Ad ogni modo il grosso delle emissioni nell’ambiente di queste sostanze avviene dove ci sono gli stabilimenti chimici che le producono, come è successo in Veneto.

Come si è capito che erano nocivi?
A differenza delle altre sostanze chimiche la cui produzione è iniziata nel secolo scorso, i Pfas non venivano trovati nei grassi del nostro corpo, per cui la scienza a lungo le ha considerate inerti, incapaci di interagire col nostro organismo. Solo negli ultimi trent’anni si è scoperto che queste sostanze si legano alle proteine e quindi le ritroviamo nel sangue. Da allora sono cominciati studi che ci stanno fornendo un quadro sempre più chiaro circa i rischi sanitari. I Pfas sono oltre diecimila molecole: una di queste, il Pfoa, è stata classificata dalla Iarc, l’agenzia della Oms per la ricerca sul cancro, come “cancerogena certa” per l’uomo. È quella presente in maggior quantità nel corpo delle popolazioni del Veneto contaminato.

Quali sono, esattamente, i rischi che si corrono?
Oggi sappiamo che queste sostanze si accumulano nel nostro corpo, sono interferenti endocrini, cioè vanno a simulare il comportamento degli ormoni dando un falso segnale all’organismo, in sostanza il corpo li riconosce come qualcosa di autoprodotto e quindi non li espelle, dunque alcuni si accumulano per anni. Causano tumore ai reni, ai testicoli, danni al fegato, ma incidono anche sul metabolismo dei lipidi, favorendo ad esempio elevati livelli di colesterolo, problemi alla tiroide etc. Alcuni di questi problemi possono diventare una concausa di altre malattie come quelle cardiovascolari.

Negli Stati Uniti c’è stata una lunga battaglia giudiziaria. Che ha dato vita a risarcimenti impressionanti.
Negli Stati Uniti il vero segreto del successo delle cause civili contro le aziende che hanno inquinato si deve a un diverso ordinamento giudiziario che ha creato processi monstre, con entità di risarcimenti sbalorditive, che però comunque non sono riusciti ad intaccare del tutto il business di queste aziende. È vero però che una delle più grandi aziende produttrici di Pfas, la 3M, ha dichiarato di voler smettere con la produzione di queste molecole a partire dal 2025: potrebbe essere l’inizio della fine dell’era di Pfas.

Perché invece da noi, nonostante le evidenze, i risultati sono stati molto più deludenti?
Quella del Veneto è una storia annosa, che parte da lontano. Una delle applicazioni principali di queste sostanze è infatti il tessile, nei prodotti di abbigliamento per ottenere l’impermeabilità. Fu il conte Marzotto, per primo, a decidere di fabbricare queste molecole. La fabbrica fu poi spostata nel sito dove c’è ancora lo stabilimento Miteni, che produceva queste sostanze per numerosi usi industriali. Nel 2013 uno studio del Cnr trova livelli abnormi di Pfas nei fiumi, nelle acque di falda e in quelle potabili. Le cose vanno avanti a rilento, gli enti pubblici inizialmente minimizzano e, ancora oggi, ci sono tanti nodi irrisolti, perché il sito dell’azienda non è stato bonificato e continua a inquinare. Inoltre non abbiamo ancora un quadro chiaro, ad esempio sulla contaminazione degli alimenti coltivati in Veneto e sui potenziali rischi dovuti al consumo. Oggi c’è un processo in corso che vede imputati alcuni ex manager dell’azienda Miteni che nel frattempo è fallita. Dal processo di Vicenza non aspettiamoci esiti simili a quello che è successo degli Stati Uniti.

Perché le istituzioni regionali non hanno agito?
Gli organi regionali non hanno informato la collettività e la cittadinanza colpita. Oggi in Veneto, al contrario che nelle Fiandre, non ci sono neanche linee guida per la popolazione. E mancano i provvedimenti che possano provare a risolvere definitivamente la questione. Si stanno completando i nuovi acquedotti che porteranno acqua pulita, ma a distanza di dieci anni non c’è stata giustizia: parliamo di 350.000 persone coinvolte, ma potrebbero essere anche di più.

E poi ci sono le ombre sui rapporti tra aziende e istituzioni.
Alcune inchieste, portate avanti dal vostro quotidiano, hanno messo in evidenza come ci fossero flussi di comunicazione preferenziale tra alcuni organi pubblici in seno alla Asl che vigilavano sulla salute degli operai e l’azienda, con scambi di documenti che lasciano più di qualche dubbio sull’operato degli enti. Inoltre, il quadro accusatorio del Nucleo Operativo Ecologico di Treviso, le cui indagini sono alla base del processo in corso, non risparmia accuse nei confronti degli enti pubblici. Scrivono di volontà dei tecnici di non voler far emergere la situazione. Sospetti molto gravi che lasciano l’amaro in bocca per ciò che poteva essere e in realtà non è stato.

Cosa è accaduto, invece, in Piemonte e qual è la mappa dei Pfas di oggi?
C’è un altro polo chimico ancora oggi attivo che produce queste molecole: la Solvay di Spinetta Marengo ad Alessandria. Questa fabbrica ancora opera e la contaminazione, come dimostrano i dati degli enti pubblici, avviene principalmente per via area dalle ciminiere con deposizione al suolo degli inquinanti. Solo ora, come dicevo, stanno partendo i primi prelievi del sangue ed stato aperto un altro fascicolo nei confronti dell’azienda e ci sarà l’udienza preliminare il prossimo 4 marzo. Nel solo Piemonte ci sono 125.000 persone che hanno ricevuto acqua con una sostanza cancerogena. Il problema è che queste sostanze tossiche restano per sempre.

Che tipo di provvedimenti servirebbero?
Oggi in Europa c’è in corso un processo politico legislativo che vuol portare al bando dell’uso e la produzione di queste sostanze. Sarebbe una scelta assolutamente efficace. A livello regionale Arpa e Asl devono fare i controlli, mentre a livello nazionale il governo dovrebbe mettere in atto un piano per definire il quadro di contaminazione e adottare misure cautelative per salute e ambiente. La nostra politica deve svegliarsi perché di Pfas si muore. Servirebbe un provvedimento bipartisan che metta tutti d’accordo, perché difendere il diritto alla salute è una battaglia priva di colore politico.

Tutto quello che è stato ottenuto è dovuto alla spinta della società civile?
È vero. In Veneto centinaia di persone hanno dovuto mobilitarsi per chiedere interventi degli enti pubblici. Non sono intransigenti ambientalisti, ma giovani, mamme, papà, nonni, impiegati di aziende, ingegneri, insegnanti, infermieri. Le coscienze di molte persone si sono scosse. Sono vite stravolte che solo mettendosi in gioco hanno potuto ottenere delle risposte.

In definitiva, come ci possiamo proteggere, allora, concretamente?
Anzitutto, dobbiamo diventare cittadini attivi, chiedere dati e informazioni agli enti preposti perché facciano i controlli e soprattutto rendano disponibili gli esiti. Parallelamente, bisogna fare in modo che le cose cambino e quindi chiedere a chi di dovere di vietare queste sostanze visto che le alternative esistono già in quasi tutti i settori industriali. È vero che, purtroppo, la popolazione veneta lo ha fatto a gran voce. Ma la politica non l’ha ascoltata.

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