Avvicinandosi l’ennesima chiamata al voto, riparte il tormentone sul perché la Destra riesce sempre a federarsi e la Sinistra pratica la disunione sistematica. Perdendo.
Facile la risposta a mandritta: è l’unico lascito politicamente rilevante (e non eticamente degenerativo) del ventennale rampantismo berlusconiano. Ossia la trovata aziendalista di avviare un merger elettorale accorpando un po’ di marchi a circolazione limitata (la Lega bossiana a radicamento regionale e il Msi finiano ancora confinato nelle fogne dalla damnatio memoriae antifascista) creando una massa critica sotto le insegne del fantasy label Forza Italia. L’operazione di marketing ebbe esito positivo, offrendo insperate prospettive di carriera a tipi improbabili, quali Maurizio Gasparri o Roberto Calderoli, e questo confisse nella mentalità destrorsa il principio “litigare pure ma presentarsi uniti”; una sorta di riflesso condizionato che scatta al momento giusto. Potremmo dire una mentalità interiorizzata.
D’altro canto, invece di banalità del tipo destino cinico e baro o litigiosità, l’interpretazione mentalista può spiegarci anche la pulsione collettiva alla disaggregazione sul lato mancino. Solo che – in questo caso – incontriamo dinamiche molto più complicate; in cui giocano fattori endogeni ed esogeni, interni e internazionali. Fenomeno che sul fronte nazionale fa capolino con la seconda generazione repubblicana, ben diversa per tempra e cultura da quella, salda e intransigente, dei Padri Costituenti. Siamo in piena guerra fredda e la supremazia di governo della DC centrista, combinata con il controllo quasi-monopolistico sull’opposizione del Partito Comunista togliattiano – entrambi ben consapevoli dei vincoli e dei limiti posti nella divisione del mondo sancita a Jalta – impediscono il funzionamento del classico meccanismo rigenerativo dell’azione politica: l’alternanza. In questa democrazia bloccata nel “bipartitismo imperfetto” (Giorgio Galli) dal “fattore K” (per kommunizm, Alberto Ronchey), il funzionamento della decisione pubblica nelle commissioni parlamentari impone pratiche negoziali sottobanco; che legittimano il cinismo del considerare la politica mero scambio di interessi.
Così, nell’ininterrotto mercimonio viene accantonato il principio di rappresentanza e – con esso – l’abito morale dei rappresentanti del popolo. L’italica Repubblica dei partiti degenera in partitocrazia. Un ‘caso italiano’ collocato nella crisi sistemica dell’Occidente; che all’uscita dal dopoguerra si era dato l’assetto di Welfare State keynesiano; con le sue dinamiche inclusive di cittadinanza, piena occupazione e distributive di benessere. L’organizzazione sociale più civile e democratica nella storia dell’umanità, ma che alla fine degli anni Sessanta comincia a mostrare contraddizioni: la burocratizzazione, con i relativi aggravi di costi, e la trasformazione dello Stato in impresa di servizi sempre più complessi, tali da mettere in crisi il ceto politico; che non può più limitarsi al ruolo classico di intermediatore del consenso e non sa dotarsi delle competenze necessarie per il nuovo contesto. In fuga verso l’assetto tecnocratico (patto segreto Nino Andreatta-Azeglio Ciampi).
Nel frattempo sale la ribellione delle élites (definizione dello storico Christopher Lash) che affama lo Stato con l’evasione fiscale, causa dell’indebitamento delle finanze pubbliche. E la politica si volge sempre di più all’economicismo (“it’s the economy, stupid!”, lo slogan con cui un outsider dell’Arkansas diviene presidente degli Stati Uniti). Dopo aver campato per decenni sui lasciti della lezione di Keynes, parte della Sinistra ora cerca una Terza Via d’uscita; che le viene fornita dal direttore della London School Anthony Giddens: in età di globalizzazione finanziaria la Sinistra può prevalere sorprendendo la Destra al bagno e filarsela con i suoi vestiti (l’inverso di quanto teorizzava Benjamin Disraeli, ministro tory della regina Vittoria): ossia vincere le elezioni assumendo un programma e un lessico di Destra per incassare voti destrorsi, da assommarsi a quelli captive dell’elettorato di Sinistra. Nell’incontro tra cinismo e opportunismo.
La tesi demenziale fatta propria dagli apostoli terzaviari Bill Clinton e Tony Blair; che lo storico Tony Judt definiva “Sinistra reazionaria, evisceratori della politica”. Con il bel risultato che l’elettorato destrorso ha preferito continuare a votare l’originale, mentre quello sinistro – sentendosi tradito – emigra nel non-voto: la catastrofe del vassallaggio psicologico verso i presunti vincitori in questa stagione dell’avidità egemone. Ma anche una mentalità da cane sciolto (pure arrampicatore sociale) ben difficilmente federabile; che giovedì scorso a Otto e mezzo Matteo Renzi ribadiva con la solita sicumera quale via del successo: la Sinistra riformista, con cui il presunto “sinistro” passò in due anni dal 40% dei voti al 3%. Causa perdurante della confusione identitaria di politicanti convinti – da Andrea Orlando a Dario Franceschini, da Lella Paita al pervicace Renzi – di aver trovato nel trasformismo la vera pietra filosofale del carrierismo politico. Un kantiano “ramo storto” irrecuperabile. Come i titubanti ospiti in casa d’altri alla Elly Schlein.
Dovremo attendere una nuova generazione dotata di mentalità e cultura meno labile per riavere una Sinistra unitaria, che si riscopra partito della Giustizia e della Libertà?