Sulla spiaggia di Al Mawasi, a Gaza, sono centinaia le persone arrivate negli scorsi giorni, dopo l’annuncio dell’ingresso a Rafah dell’esercito israeliano del premier Benjamin Netanyahu, il 17 febbraio. “Siamo scappati per l’ennesima volta. Ho davvero esaurito le energie, habibi”. Tra i civili fuggiti sulla costa, Karam Jad e i suoi familiari hanno trovato riparo temporaneo in un appartamento di conoscenti. Intorno, la quiete sembra ormai un ricordo lontano: “Lo senti questo ronzio? I droni passano in continuazione, non si riesce a sentire nulla”, spiega il 21enne a Ilfattoquotidiano.it rientrando nell’abitazione di fortuna con la nipotina. “Non abbiamo elettricità e acqua, ci siamo spostati oggi per evitare le future evacuazioni di massa”.
Con la sua famiglia, composta da 13 persone, Karam è arrivato sulla costa dopo il quinto spostamento dall’inizio degli attacchi delle Forze di difesa israeliane (Idf): “Non sappiamo più dove andare. All’inizio siamo scappati da casa nostra, a Gaza City, per trovare rifugio nel distretto di Khan Younis – racconta il giovane palestinese – Quando i bombardamenti sono arrivati anche lì, qualche settimana dopo, abbiamo deciso di ritornare, ci eravamo arresi all’inevitabile”.
Poi la fuga a sud, a Rafah, dove Karam ha trovato un lavoro da coordinatore nella logistica per la distribuzione degli aiuti umanitari e viveva in una casa condivisa con circa 30 persone. I soldi guadagnati fino a ora, purtroppo, non sono bastati per coprire l’affitto per tutta la famiglia. “Quando il proprietario dell’appartamento ha alzato i prezzi, la situazione non era più sostenibile. Ce ne siamo andati. Facciamo il possibile, ma mio padre si sta ammalando, mentre mia nipote di quattro anni mostra segni di trauma psicologico. Voglio che escano dall’inferno”.
Salvare la propria famiglia, se stessi: per molte persone l’unico pensiero oramai è scappare da Gaza, ma senza doppio passaporto o permesso di residenza all’estero il costo è altissimo. In completa assenza di meccanismi di cooperazione internazionale sicuri ed efficaci, l’unico modo per poter uscire dal valico di Rafah è coordinandosi con l’agenzia egiziana Hala Consulting and Tourism Service, compagnia turistica autorizzata a rilasciare i permessi di uscita dall’enclave palestinese. “Chiedono 5mila euro per adulto e 3mila per i bambini dagli 0 ai 13 anni”, racconta nervosamente il giovane palestinese mostrando una foto del suo nucleo familiare. “Sono cifre assurde, siamo sotto assedio e abbiamo a malapena i soldi per mangiare, si approfittano della disperazione per arricchirsi”. Per poter permettere la fuga dei suoi genitori, insieme a tre cognate e quattro nipoti, Karam ha recentemente avviato una raccolta fondi online per mettere insieme i 62mila euro totali richiesti dall’agenzia. Come lui, nelle scorse settimane, centinaia di famiglie a Gaza sono ricorse a strumenti simili su piattaforme di crowdfunding come GoFundme, sperando di riuscire a raggiungere le cifre richieste da Hala, detentrice assoluta del monopolio su questo business della disperazione.
Uno sfruttamento non nuovo quello dell’agenzia turistica con sede al Cairo che già a partire dalle escalation del 2019 proponeva pacchetti VIP da 1.200 euro in cui era incluso il trasporto oltre il confine e il rilascio del ‘coordinamento’ (in arabo tanseeq), documento con cui si può oltrepassare il valico. “A fine ottobre 2023, i prezzi erano compresi tra i 7mila e i 10mila euro. Hanno dovuto aggiustare il tiro da dicembre perché nessuno se lo poteva permettere”, aggiunge Karam, che conclude: “Spero solo di riuscire ad aiutare la mia famiglia. Io e i miei fratelli intanto resteremo qui, nell’attesa che questo incubo finisca”.
Dall’inizio del conflitto, sono circa 30 le persone che ogni giorno usufruiscono del servizio, con guadagni record da parte di Hala, che a fine giornata chiude il form di iscrizione presente sulla propria pagina esortando i civili a “non assembrarsi davanti al cancello aziendale fino alla riapertura del modulo on-line” del giorno successivo.
Come per Karam, anche la famiglia di Jumana e Shaban ha subito la stessa sorte. Da nord a sud, con vari spostamenti nel mezzo, per poi affittare una casa bombardata senza una parte dei muri. Intorno, nel freddo invernale, le tendopoli dove vivono più di un milione di persone. Una condizione estrema, senza cibo, acqua, impianti fognari e trattamento di rifiuti, che ha spinto la coppia ad aprire un’altra raccolta fondi indipendente: “I miei fratelli più piccoli, Esam e Nada, sono affetti da morbo di Crohn, una grave malattia autoimmune che potrebbe essergli fatale se non trattata bene”, spiega Shaban nel testo del crowdfunding. A causa della patologia, Nada ha un disperato bisogno di iniezioni di Infliximab, un farmaco di difficile reperibilità che, come per la maggior parte dei medicinali, “è impossibile da trovare qui a Gaza. Senza una puntura da tre mesi, ormai, la sua condizione di salute è a serio rischio”. Anche per loro, la fuga in Egitto ha un prezzo altissimo, pari a 45mila euro. “In questo momento, purtroppo, è una questione di vita o di morte”, aggiunge il 28enne su GoFundMe sottolineando che la richiesta di aiuto arriva “dopo mesi di pensieri ed esitazioni, perché Gaza è stata la nostra casa, con tutte le sue gioie e le sue difficoltà”.
È stata, perché della Striscia ormai rimane in piedi poco o nulla. Secondo l’ultimo report Unctad, a seguito delle rilevazioni del Centro satellitare delle Nazioni Unite, sono almeno 37.379 gli edifici danneggiati dal 7 ottobre al 26 novembre, di cui più di 10mila completamente distrutti. Ai danni causati dai bombardamenti, come raccontato dal New York Times, si aggiungono poi massicce operazioni controllate di demolizione dei centri abitati che hanno cancellato interi quartieri. L’obiettivo? Evitare il rientro di civili palestinesi nelle proprie abitazioni.
Foto di Karam Jad e Jumana Shaheen