di Stefano De Fazi

Nonostante se ne parli molto poco nell’attuale dibattito politico, dagli anni Ottanta in tutto l’Occidente è emersa prepotentemente la teoria economia neoliberista. Tra gli effetti concreti che ha prodotto in Italia, evidenziamo un abbassamento drastico delle aliquote fiscali per i redditi più alti, per i redditi da capitale e per le successioni. Alcune privatizzazioni disastrose, che hanno portato tra gli altri ai casi emblematici di Autostrade per l’Italia e dell’Ilva. E ancora il dilagare di contratti atipici e il depotenziamento della contrattazione collettiva che hanno reso il mercato del lavoro più “flessibile”, al costo sociale di aver portato milioni di lavoratori in condizioni di povertà.

Tra i principali fondatori di questa ideologia è spesso annoverato Adam Smith, considerato come il pioniere della scienza economica moderna. Un think-tank italiano prende il suo nome. Ne fanno parte ex ministri e famosi dirigenti d’azienda; sul sito dell’Adam Smith Society si può leggere che i propri interessi principali, leggasi obiettivi, sono le privatizzazioni e la deregulation di attività economiche. Il concetto di “mano invisibile” del teorico del ‘700 è invocato dai teorici neoliberisti per sostenere come i possessori di capitali perseguendo i propri interessi concorrano anche a creare benefici alla collettività. Lo stato deve limitarsi ad una regolazione minima che garantisca semplicemente la legalità e l’applicazione dei contratti. Qualsiasi intervento più forte è considerato negativo perché altera l’allocazione efficiente di risorse. Questo tema e quello dei benefici della divisione del lavoro stimolata dal commercio internazionale liberalizzato sono gli aspetti presi come fondamento dal neoliberismo e dal cosiddetto Washington Consensus.

Ritengo tuttavia che il pensiero dell’economista-filosofo britannico sia spesso travisato e che molti punti fondamentali della sua teoria siano ignorati. Il concetto stesso di mano invisibile in realtà è espresso in contrapposizione ad un tipo di intervento statale per garantire il preservarsi di ricchezza e di potere oligopolista dei grandi possidenti. Smith evidenzia come questi ultimi non abbiano incentivi ad investire in innovazioni, ma al contrario li hanno ad utilizzare le propri rendite per accrescere il proprio patrimonio e i propri consumi, superflui per la collettività. Un intervento pubblico volto a modificare questi meccanismi non è certo osteggiato; al contrario, è un requisito essenziale per cui la mano invisibile funzioni veramente. E’ fondamentale sottolineare un passaggio all’interno della Ricchezza delle nazioni che dimostra come Smith ritenesse che una concentrazione troppo elevata di ricchezze sia un grave rischio per il benessere della società e per l’operato dello stato. A suo parere in tutte le epoche i grandi capitalisti, che all’epoca erano i proprietari terrieri mentre oggi sono gli azionisti delle grandi società, agiscono secondo la massima “tutto per noi e niente per gli altri”. Lo sviluppo del commercio internazionali e della manifattura ha permesso a costoro “i padroni del mondo” di “consumare da soli senza dividerlo l’intero valore delle proprie rendite”, non accrescendo in alcun modo il benessere della comunità.

Adam Smith non può certo essere considerato un pensatore “di sinistra” e sicuramente la sua analisi dava enfasi ai benefici di un’economia di mercato funzionante. Tuttavia, era assolutamente consapevole degli effettivi negativi dell’esistenza di individui troppo ricchi e potenti e dell’influenza che questi hanno sull’operato statale, che viene catturato da interessi economici specifici e non agisce più per il benessere collettivo. Queste considerazioni non sono presenti nell’ideologia neoliberista predominante, che al contrario continua a vivere nell’illusione di grandi capitalisti-investitori che condividono il benessere con il resto della società.

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