I fondi già erogati hanno fatto salire il pil Ue solo dello 0,4%, contro un +1,9% atteso. Intanto la maggioranza ostenta "orgoglio" per il numero di obiettivi raggiunti, superiore agli altri Paesi. Ma il confronto non ha senso: il nostro piano ne contiene molti di più
Per il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni è “una storia di successo” anche se “c’è sempre spazio per miglioramenti”. La verità è che la Recovery and resilience facility, cuore del Next generation Eu, non sta ottenendo i risultati sperati. La revisione intermedia presentata mercoledì dalla Commissione europea fa il possibile per presentare un quadro positivo: 225 miliardi di fondi già erogati, un aumento degli investimenti pubblici dal 3% del 2019 al 3,3% del 2023 nonostante pandemia e crisi energetica, maggiori progressi dei Paesi nell’adeguarsi alle raccomandazioni Ue. Ma uno degli studi allegati al rapporto costringe a rimettere i piedi per terra. Il Centre for european policy studies, il National institute of economic and social research, l’istituto di ricerca Csil e le società di consulenza Ecorys e Wavestone hanno calcolato infatti che nel 2022 i fondi già erogati hanno spinto il pil Ue solo dello 0,4%, contro un +1,9% atteso. Martedì il Financial Times, anticipando il dato, si è chiesto se “il fondo europeo per la ripresa dal Covid stia fallendo“. Perché “l’implementazione non sta tenendo il passo: disaccordi tra le capitali e Bruxelles sulle riforme hanno frenato i pagamenti e gli investimenti sono stati ritardati o rivisti al ribasso a causa dell’inflazione”.
L‘invasione russa dell’Ucraina e l’esplosione dei prezzi energetici hanno ovviamente pesato, ponendo enormi ostacoli alla ripartenza delle economie europee che uscivano dalla crisi pandemica. E bloccando una parte degli esborsi attesi: al momento il 25% degli obiettivi da raggiungere entro la fine del 2023 è ancora sub iudice. Ma lo scarso impatto sul pil dipende anche da un difetto intrinseco di molti piani nazionali: l’inserimento nei cronoprogrammi, accanto ai progetti di spesa aggiuntivi, di investimenti già previsti o addirittura già in essere e finanziati con fondi propri. E quindi già “scontati” nelle previsioni di andamento dell’economia. Nel Pnrr italiano, per esempio, i progetti in essere valevano – prima della revisione – oltre 51 miliardi su un totale di 191 miliardi di prestiti e sovvenzioni a fondo perduto che fanno della Penisola il primo beneficiario del pacchetto europeo.
Proprio la situazione italiana è un buon esempio del perché il Next generation Eu, prima grande prova di solidarietà fiscale europea essendo alimentato con emissioni di debito comune, rischi di mancare l’obiettivo di mettere i 27 su un sentiero virtuoso di maggiore crescita nel lungo periodo. Gentiloni ha spiegato che l’impatto sul pil nazionale sarà “nella media” di quanto previsto per la Ue, pari a un punto e mezzo di pil nel 2026. Si tratta però di ben 2 punti in meno rispetto alle stime fatte dal ministero dell’Economia nel 2021. Del resto, a fronte di 85 miliardi già incassati, sulla messa a terra effettiva delle risorse è buio fitto. La Relazione semestrale del governo al Parlamento, che avrebbe dovuto arrivare due mesi fa, ancora non c’è: la cabina di regia per il Pnrr dovrebbe esaminarla giovedì. Le ultime valutazioni ufficiali risalgono allo scorso novembre, quando la Corte dei Conti è arrivata alla conclusione che la spesa sostenuta al 30 giugno per una trentina di progetti si era fermata al 7,94% dei soldi stanziati e l’Ufficio parlamentare di bilancio ha ottenuto un dato simile (7,3%) valutando gli esborsi dell’intero 2023.
Intanto i pagamenti sono al palo perché il nuovo decreto Pnrr, chiamato ad attuare la revisione approvata dalla Ue ormai tre mesi fa, slitta da settimane per la difficoltà di mettere insieme le coperture necessarie accontentando sia i ministeri sia la Ragioneria dello Stato. L’ultimo aggiornamento è che il piano Transizione 5.0 da 6 miliardi non può essere finanziato con crediti di imposta, come aveva proposto il Mimit, perché il loro utilizzo si spalmerebbe oltre il 2026, anno finale del Pnrr. Impossibile quindi portarlo nel cdm che mercoledì ha approvato in via preliminare il decreto sulla revisione delle sanzioni tributarie.
La maggioranza, nel tentativo di silenziare chi lamenta i continui rinvii, ha ostentato “orgoglio” per alcuni numeri che emergono dai documenti europei, a partire dalla quantità di milestone e target raggiunti (178 su 527) che mette l’Italia sul podio davanti a Spagna e Croazia. Esponenti di Forza Italia e FdI sono arrivati a parlare di “Italia locomotiva d’Europa”, incuranti delle stime di crescita tagliate a +0,7%. Ma un confronto del genere, oltre a non tener conto dei diversi cronoprogrammi, non dice nulla sull’efficienza nell’attuazione: semplicemente, essendo di gran lunga il Paese destinatario di più risorse, il nostro piano aveva fin dall’inizio molti più obiettivi. In più i primi risultati erano più facili da raggiungere perché si trattava soprattutto di approvare decreti e riforme, mentre ora stanno diventando prevalenti i target quantitativi. Ed è lì tutto si complica. Non a caso il governo, con la revisione annunciata lo scorso anno, ha deciso di tagliar fuori diverse tratte ferroviarie, ridotto sensibilmente il numero di posti da realizzare negli asili nido, le nuove case di comunità e i posti aggiuntivi nelle terapie intensive e semi intensive e ridimensionato il Piano Italia a 1 Giga per aumentare le connessioni a banda ultralarga.