Mai campagna elettorale americana era stata così brutta, priva di ispirazione politica e spunti di significato. Gli elettori e gli spettatori esterni, già esausti e divisi, giudicano orrendo il re-match di novembre tra Biden e Trump. Una elementare constatazione è generalmente condivisa: com’è possibile che la superpotenza economica e militare n.1 al mondo, nazione da 340 milioni di abitanti, non riesca ad esprimere candidati migliori per la Casa Bianca? Eppure è così, facciamocene una ragione. Parlare di rivolta anti-woke, destra populista contro sinistra liberal, capitalisti contro comunisti, individualisti razzisti contrapposti a fautori del ‘bene comune’, va bene. Ma la verità è che un elemento negativo accomuna il repubblicano e il democratico: in due hanno 158 anni.
Nessuno li accusa solo per l’essere ‘diversamente giovani’. Ma ambedue confermano ogni giorno di avere gravi carenze cognitive e di lucidità mentale (l’ex tycoon, in verità, è stato definito un ‘sociopatico pericoloso’ da 27 psichiatri e specialisti di salute mentale a cui si deve, sul tema, un corposo studio scientifico). Probabile quindi che al potere in America, il 20 gennaio 2025, vada un presidente con ‘tare’ preoccupanti.
Agli occhi dei suoi sfrenati fan del Maga (Make America Great Again), fortificato dalla sfilza di processi in cui è imputato (per corruzione, evasione fiscale, stupro, sovvertimento delle procedure elettorali eccetera eccetera) con 91 capi d’accusa da cui si deve difendere in tribunali statali e federali, Trump continua a essere in testa in tutti i sondaggi. C’è poco da fidarsi a nove mesi dal voto, ma Biden arranca sempre dietro. Penalizzato anche dalla scelta di appoggiare – scelta invisa alla maggioranza degli statunitensi – Israele nella guerra a Gaza contro Hamas, e l’Ucraina nel complicato e strategicamente impossibile tentativo di respingere le truppe degli invasori russi. Corollario: il panico ormai serpeggia tra i dem, a novembre si profila una disfatta. Per questo, con lucida disperazione, gli spin doctor della Casa Bianca, di fronte allo spauracchio di un secondo mandato Trump, si stanno ingegnando come possono per dare all’influencer n.1 quel quid che oggi gli manca.
Ed eccoci al punto. Se non c’è intervento nei discorsi di Biden a telecamere in funzione o parola che non sia precotta, cotta e rivista (in presenza di evidenti segni di Alzheimer impera il teleprompter), non è certo un caso che Joe ieri abbia alzato il tono dello scontro – verbale, non militare – ad uso e consumo dei media e dei social. Ha buttato benzina sul fuoco della rivalità geopolitica con Mosca, insultando frontalmente Putin (a cui aveva già dato del ‘macellaio’). Al Cremlino sorridono per tali “americanate”, i portavoce dello Zar gli hanno risposto di occuparsi del figlio Hunter (l’ironia va posta sul termine “figlio”), infatti l’inquilino della Casa Bianca nel corso di una raccolta fondi per la sua campagna elettorale in California ha definito Vladimir un “pazzo figlio di put*ana” (letteralmente ‘crazy SOB’ – son of a bitch). Cambio di linguaggio, ovvio. E atteggiamento, postura. Ma attenzione: nessuna svolta sostanziale di politica internazionale.
Parole interpretabili però come un indurimento di Biden. E non solo nei confronti di Putin ma anche di Donald Trump. Di fronte agli stessi donors, nella cena californiana, Biden si è detto stupefatto perché il presidente n.45 ha paragonato la morte sospetta in carcere del leader dell’opposizione russa Alexei Navalny a se stesso e ai suoi problemi legali (Trump è stato multato di 350 milioni di dollari dopo che un giudice di New York ha scoperto ‘vaste’ falsità nelle sue dichiarazioni al fisco, al che Donald ha reagito parlando di “comunismo o fascismo”).
Siamo agli insulti gratuiti dunque. Pessimo degrado del discorso politico. Brutta cosa. Come brutta è la campagna elettorale. Che però prosegue. Con manifestazioni, se possibile, ancor più deteriori che segnalano il basso livello a cui è sceso il marketing in politica (la corsa alla Casa Bianca costa nel complesso vari miliardi). Si fa quel che si può. Con le cene, le donazioni delle grandi aziende, dei ricchi e dei piccoli elettori. Per far fronte alle immense spese legali nei processi in cui è imputato, da un paio di giorni Trump è arrivato a vendere sneaker da pallacanestro, color oro. Le scarpe si chiamano “The Never Surrender High-Top Sneaker”, prezzo: 399 dollari.
Oltre a T-shirt, tazze da caffè e altri gadget, sul sito di Trump sono in vendita una bottiglia di profumo da 99 dollari e acqua di colonia “Victory 47”. Le comprano, gli elettori repubblicani? I moderati e gli indipendenti no ma i seguaci del Maga razziano quel che trovano del loro idolo. Pensate che l’ottuagenario avversario democratico sia da meno? Con altrettanto successo Biden piazza merchandising con il marchio “Dark Brandon”. Una storia che ha dell’incredibile. Già da un paio d’anni negli stadi di football, baseball e basket, negli autodromi del Nascar e Indianapolis e ovunque ci fosse folla sugli spalti i repubblicani di destra facevano la ola urlando “Let’s go Brandon”, eufemismo per “Fuck you Joe Biden”. Ebbene, che dire, per non sembrare moralisti? Solo che i consiglieri della Casa Bianca sono stati bravi nel rivoltare il meme offensivo, inventandosi il “Dark Brandon”. Così va la politica in America.
Sul fronte democratico, molti big sono convinti che se le elezioni si svolgessero oggi, Biden perderebbe la rivincita con Trump. Per questo i dem cercano di individuare, oltre all’oggettistica e agli slogan, opportunità che facciano superare o almeno neutralizzare le giuste preoccupazioni dell’elettorato, soprattutto sull’età, lucidità e vitalità del presidente. Da notare che Mark Zandi di Moody’s Analytics, in un recente articolo, sebbene una rivincita Joe-Donald sarebbe dura, afferma che “si sente fiducioso” nella previsione di una vittoria di Biden, stando al modello di simulazione del voto ‘stato per stato’ scelto dall’agenzia di rating. Ma ci sarà da fidarsi di chi assegnò la ‘tripla A’ a Lehman Brothers giorni prima del crack da cui scoppiò la Grande Crisi del 2008?
Nel team Biden, il discorso sullo Stato dell’Unione il prossimo 7 marzo è visto come un grande momento di rilancio del presidente. Parola d’ordine: la percezione del pubblico va cambiata. Oggi è ai minimi. Soprattutto dopo che il procuratore speciale Robert Hur lo ha scagionato da qualsiasi illecito nella gestione di documenti ufficiali dell’Oval Office ma lo ha definito “un uomo anziano con poca memoria”. Cambiare subito, prima possibile. Una mossa che la Casa Bianca sta prendendo in considerazione, secondo i rumors di Washington, è un ordine esecutivo che fermerebbe drasticamente il flusso record di migranti dal confine con il Messico (Trump dice: “avvelenano il sangue americano”).
Eppure, qualsiasi cosa Biden faccia, la sensazione è che accada troppo lentamente. E potrebbe essere già troppo tardi.
La più brutta campagna elettorale degli ultimi decenni è quindi, forse, a un punto di non ritorno. A meno di clamorose sorprese stile “House of Cards” (anche se la realtà supera la fervida fantasia degli sceneggiatori di Netflix). L’ex ambasciatore d’Italia a Washington e poi alle Nazioni Unite Sergio Vento, sere fa, mi ha parlato di un’ipotesi al limite con la fantapolitica. Un possibile cambio di cavalli in corsa. Prima delle due convention estive che formalizzeranno la scelta dei candidati, per i democratici e per i repubblicani. Attenzione: ambedue i cavalli. Il che sarebbe clamoroso. Possibile? Di fatto, se ne parla. Da escludere però che la vicepresidente Kamala Harris abbia un ruolo in tale scenario. Se accadesse, sarebbe la rivolta in strada di milioni di seguaci del Maga contro l’attuale vicepresidente: donna, mulatta e anche indiana. Altro che assalto a Capitol Hill.