Cinema

La zona di interesse, l’Olocausto di Jonathan Glazer non si vede e non si sente. Ed è snobisticamente banalizzato

di Davide Turrini

Non c’è nulla da fare. L’Olocausto al cinema è un pozzo tematico che si sta seccando. Probabile che il regista britannico Jonathan Glazer (Birth, Under the skin) con La Zona di interesse ne abbia raccolto le ultime gocce possibili. E il risultato non è proprio irresistibile. Dopo la tesa inequivocabile tensione della documentazione in Notte e nebbia, la pudica e stordente maestria di Spielberg con Schindler’s list e l’immersione radicalmente parziale dentro l’orrore di Il figlio di Saul, con La zona d’interesse l’Olocausto si percepisce soltanto, senza mai vedersi, grazie a un sinistro e prolungato suono off-screen.

Sono le sommesse urla dei deportati, le raffiche di mitra, l’abbaiare ringhioso dei cani, che provengono da oltre il muro e il filo spinato del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau. Il punto d’ascolto, che diventa lo stesso dello spettatore, è la casetta anonima e immacolata con immenso giardino, orto, serra e piscinetta, del comandante del campo, l’SS Rudolf Hoss (Christian Friedel), la sua consorte Hedwig (Sandra Huller), i figlioli, qualche amica e i prigionieri ebrei che fungono da giardinieri e camerieri. Villetta che si trova letteralmente appiccicata ai muri di cinta del campo di concentramento in quella che venne definita nel gergo burocratico nazista come zona d’interesse (interessengebeit): area abitata da ufficiali SS, militari e impiegati del campo, sorta attorno alle prime baracche dove venivano uccisi i deportati e che tra il 1941 e 1942 si strutturò in campo di concentramento con grandi camere a gas e ciminiere.

La macchina da presa registra asetticamente la quotidianità della famiglia Hoss, le gite al fiume e a cavallo, i compleanni, i giochi, i pranzi. Fino a quando Hoss sembra venga trasferito lontano e la moglie Hedwig si arrabbia e si oppone perché vuole rimanere lì a crescere i propri figli. Di fondo Glazer costruisce il film in un finto crescendo, nel senso che narrativamente nulla accade se non qualche piccola increspatura mai supportata da qualsivoglia scandaglio psicologico dei personaggi; mentre l’incidere del suono sinistro monta inconsciamente in chi guarda e in chi agisce in scena verso un finale e sottofinale che si rincorrono a vicenda tra una metafora digestiva alla Scurati che colpisce Hoss e un parallelismo simbolico sull’odierna Auschwitz ordinariamente criptico e sostanzialmente controproducente.

Ecco, è proprio in questa supposta doppia glacialità del punto di vista della regia – i freddi campi medi e lunghi al posto dei caldi primi piani da campo e controcampo – e della naturalezza antropologica dei protagonisti – la cosiddetta “banalità del male” su cui torniamo – che La zona d’interesse ha grosse smagliature di coerenza formale. Se il compitino espressivo dell’orrore modello “art film” alla David Bordwell si fondasse rigorosamente e avesse senso estremo solo attraverso la distanza della macchia da presa dai soggetti immorali e da quell’insistente suono fastidioso (il New York Times in maniera brutale ha scritto “Glazer ha reso l’Olocausto un rumore di fondo”) non ci sarebbe bisogno di tutta una serie di insistiti contrappunti grossolanamente didascalici spacciati per necessari: il rossetto della deportata lasciato nella tasca della pelliccia che indossa la signora Hedwig; Hoss che conta le banconote di diverse valute sottratte ai prigionieri; Hoss che si lava il pene dopo aver avuto un rapporto sessuale con una cameriera ebrea; il violento lavaggio dei bambini con acqua bollente dopo che il padre li ha estratti dal fiume dove galleggiavano resti visibili di ebrei gasati; la ovvia familiarità con il linguaggio e la pratica dello sterminio.

Ogni dettaglio moralmente giudicante che Glazer aggiunge con ordinaria spettacolarizzazione (leggasi: come sono meschini gli Hoss) toglie forza al “rumore di fondo” perché gli Hoss e compagnia quel suono sono stati programmati per non sentirlo. Anche perché dovremmo cominciare a spiegare la cecità e l’insensibilità dei volenterosi carnefici hitleriani non più sotto l’unica ottica arendtiana della banalità del male, ma soprattutto sulla cieca obbedienza all’autorità (qualsiasi essa sia) rilevata dopo lunghi esperimenti in laboratorio dallo psicologo sociale Stanley Milgram nei primi anni sessanta, anche lui dopo aver seguito il processo Eichmann.

Uno slittamento di paradigma che spiegherebbe ancor meglio perché gli Hoss e la maggior parte di tedeschi, o di qualsiasi anonimo protagonista di altri stermini della storia e del tempo, non sentirono il rumore di fondo della morte altrui; e che spiegherebbe anche come tutto quell’armamentario da convenzioni art film di Glazer (le lunghe schermate nere e rosse, ad inizio, al centro, e a fine film precipitate dagli anni settanta che nemmeno Antonioni; le sequenze in bianco e nero con i termovisori notturni) stoni e strida rispetto a quella morte invisibile fuori campo oramai, più o meno volontariamente, snobisticamente banalizzata.

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