Cosa ha spinto Michele a lasciare Mortara, un paesino di 15mila abitanti in provincia di Pavia, per vivere a Boston, negli Stati Uniti? Delusione, determinazione, ambizione. “Ero stanco di fare stage che non portavano ad assunzioni. Non trovavo sbocco nel settore che più mi competeva e in quello per cui avevo studiato: lo sport”. Dopo sette anni negli Usa, oggi Michele ricopre il ruolo di direttore organizzativo e tecnico di una Youth Academy di calcio con più di 3.000 bambini. E sogna in grande.
Michele Bertuzzi, 33 anni, ha completato la sua formazione con un master in Sport e Management all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dopo aver ottenuto una laurea in Comunicazione e Marketing alla Statale di Milano. Fin da quando ha 18 anni la sua passione è allenare bambini nelle società della zona, tra Vigevano e Pavia, con un rimborso spese a volte di 300 euro, con cui non poteva vivere, “ovviamente”. È il gennaio del 2017 quando arriva la decisione di lasciare il Paese. “Ho provato a cercare lavoro nel mio settore per tre, quattro mesi”, ricorda al fattoquotidiano.it. Amareggiato dai pochi annunci e dalle centinaia di mail senza risposta, Michele decide di contattare un ex collega di master, che nel frattempo aveva lasciato la sua città natale (Treviso), per intraprendere un’esperienza lavorativa negli Usa, a Boston.
Il primo colloquio è stato superato. Da lì, un weekend di formazione in Inghilterra, l’attesa per l’approvazione del visto, l’adrenalina che saliva e il volo in direzione Stati Uniti. Era il giugno del 2017. “Come si dice, il potere del networking”, sorride lui. Per tre anni, così, Michele lavora a Boston in un club dilettantistico, il Global Premier Soccer, allora l’unico partner ufficiale del Bayern Monaco in Nord America. Tra partite, tornei, allenamenti, visite degli allenatori, la settimana lavorativa di Michele supera spesso le 50 ore: è stanco, “ma contento”, perché finalmente può lavorare mettendo in pratica quello che ha imparato e continuare la passione del coaching. La città lo accoglie senza difficoltà: “Qui c’è una comunità molto internazionale – spiega –. Anche grazie alla presenza di alcune delle più importanti università, c’è molta diversità culturale con studenti e lavoratori da tutto il mondo”. Anche il fatto di aver un contatto italiano sul posto lo ha aiutato molto nell’inserimento.
Lo sport in America, spiega Michele, è un lavoro come tutti gli altri e “viene retribuito in tal senso”. Il Massachusetts, Stato dove ha la residenza, è uno di quelli “più costosi d’America”, ma anche uno “con gli stipendi più alti”. Insomma, tutto è proporzionato. “Le famiglie dei nostri giocatori – aggiunge – vengono trattate come veri e propri clienti che comprano un servizio per i loro figli”. La giornata di Michele, che oggi lavora come direttore organizzativo e tecnico del club, si divide in due parti: la mattina, da casa, gestisce l’organizzazione di partite, eventi, tornei e i rapporti con i genitori. Nel pomeriggio si sposta al centro sportivo per seguire gli allenamenti delle squadre. Il sabato e la domenica si svolgono le partite ufficiali. Una nuova carriera costruita, anche, grazie allo studio approfondito della lingua: “Tutti studiamo le lingue a scuola, la differenza sta nel metodo: serve parlarla costantemente ogni settimana”. E magari aggiungerne un’altra: “L’inglese non basta più – continua – per differenziarsi nel mercato del lavoro. Qui è importante conoscere lo spagnolo e il portoghese”, data la grande comunità latina.
Michele torna in Italia una volta l’anno, per le vacanze natalizie da trascorrere rigorosamente tra amici e familiari. Sì, quella famiglia che lo ha sempre sostenuto nella scelta di lasciare la Lombardia, che credeva fosse – quella dell’America – un’esperienza per la lingua, per il curriculum, per il percorso di vita, da fare assolutamente. Cosa lo spingerebbe a tornare allora, un giorno, in Italia? È solo una questione di soldi o anche di prospettiva? “Non ho un sogno, ma alcuni obbiettivi sì”, risponde Michele, che vorrebbe lavorare nel calcio professionistico (MLS) in America, come “responsabile scouting” o responsabile “del settore giovanile”. E magari, un giorno, far parte dell’organizzazione dei Mondiali di Calcio con la FIFA.
“Non sarò uno scienziato o ricercatore – dice – ma credo che la mia storia possa ispirare qualche giovane italiano nel mondo del calcio giovanile in Italia, dove i lavori offerti sono quasi tutti part-time o a rimborso spese perché il settore è povero, o che magari sono qualificati con lauree in Scienze Motorie, patentini UEFA, master, ma non sono a conoscenza di cosa si possa trovare qui”. No, non è impossibile “venire negli Usa e farne un lavoro full-time” spiega. Dopo sette anni passati negli Stati Uniti, Michele vede “francamente” il suo futuro professionale e personale oltreoceano. “Nella vita poi mai dire mai – conclude –. Ma la mia passione è diventata il mio lavoro qui, e non in Italia”.