La Camera Usa è chiusa fino al 28 febbraio. I deputati si prendono una pausa – criticata dal presidente Joe Biden – in uno dei momenti più drammatici degli ultimi mesi. Il conflitto a Gaza non accenna a placarsi e Israele è sul punto di scatenare un’offensiva di terra potenzialmente devastante a Rafah. L’Ucraina è in serie difficoltà. Non solo la controffensiva di Kiev è fallita, ma l’esercito russo, dopo la conquista di Avdiivka, è sul punto di allargare la sua azione militare, consolidando le conquiste di questi mesi. Di più, la morte di Aleksei Navalny mostra che Vladimir Putin mantiene un controllo pressoché totale all’interno della Russia, contraddicendo le previsioni di chi riteneva che la guerra in Ucraina avrebbe rappresentato la sua fine politica. La chiusura temporanea della Camera, senza che sia stato ratificato il pacchetto di aiuti a Ucraina, Israele e Taiwan, fa quindi infuriare il presidente Usa, che attacca la maggioranza repubblicana: “Ignorano la minaccia della Russia. Si disinteressano della Nato. Non rispettano I nostri obblighi internazionali”, spiega Biden.
Sarebbe però errato pensare che, con la Camera chiusa, la vita politica a Washington si sia fermata. Al di là delle dichiarazioni di facciata – come quella dello speaker della Camera, Mike Johnson, secondo cui il pacchetto di aiuti da 95,3 miliardi di dollari approvato dal Senato “è morto in partenza alla Camera” – i negoziati tra repubblicani e democratici proseguono e si avvicinano a un’intesa. Da un lato, la caduta di Avdiivka ha mostrato al mondo politico americano una verità evidente. Senza gli aiuti statunitensi, l’esercito ucraino è destinato a capitolare velocemente. Lo ha detto molto chiaramente Biden, spiegando che “altre città, dopo Avdiivka, cadranno” e che “non è etico” che gli Stati Uniti non forniscano gli aiuti necessari al popolo ucraino, dopo che questo ha combattuto “così coraggiosamente ed eroicamente”. Dall’altro lato la morte di Navalny ha, dal punto di vista americano, reso chiara la natura sempre più autoritaria del regime di Putin. Senza opposizione all’interno del Paese, forte delle conquiste territoriali in Ucraina, Putin diventa per gli americani una minaccia significativa.
A rinfocolare i timori di Washington sono arrivate negli ultimi giorni due notizie. La prima riguarda la presunta volontà di Putin di mandare in orbita un’arma nucleare che potrebbe costituire un pericolo per i sistemi di difesa e di comunicazione occidentali. Putin ha categoricamente negato che la cosa abbia fondamento e il ministro della difesa russo ha anzi sostenuto che si tratta di una fake news creata ad arte dall’intelligence USA per spingere i deputati ad autorizzare nuovi fondi per l’Ucraina. Vera o meno, la notizia dell’arma nucleare russa ha messo in allarme il mondo politico di Washington. Come un certo allarme ha destato anche la rivelazione che Alexander Smirnov, l’ex agente dell’FBI che ha accusato falsamente il figlio del presidente, Hunter Biden, di affari illeciti in Ucraina, era in contatto con uomini dei servizi russi e ha anzi ricevuto da loro il materiale diffamatorio. Alla vigilia delle elezioni presidenziali, sentir parlare di spie russe e di manipolazione dell’informazione ha fatto tornare alla memoria il 2016 e l’ingerenza del Cremlino nel funzionamento della democrazia americana.
Di fronte a quella che a Washington appare una pericolosa ripresa di azione politica e militare della Russia di Putin, democratici e repubblicani hanno quindi fatto ripartire i negoziati sul pacchetto di aiuti agli alleati. È molto difficile che lo stanziamento di oltre 95 miliardi di dollari, passato al Senato, venga approvato anche dalla Camera. Ne va della parola e del prestigio politico di Mike Johnson e di molti nella destra repubblicana, che hanno giurato di non votare quella misura. Una soluzione alternativa è però allo studio. In particolare, otto deputati centristi, quattro repubblicani e quattro democratici, hanno lavorato a una legge che finanzierebbe le operazioni militari degli alleati (in minor misura rispetto alla legge votata al Senato) aggiungendo però nuovi fondi per la sicurezza al confine meridionale (che mancano nel testo del Senato). In particolare, la misura proposta dalla Camera prevede uno stanziamento complessivo di 66,32 miliardi (contro i 95 originari). Spariscono gli aiuti umanitari a Gaza e Ucraina e anche i finanziamenti militari per Kiev subiscono una decisa riduzione. Si va dai 60 miliardi di dollari originari a 47,69 miliardi. In compenso, si prevedono misure per il rafforzamento dei controlli e della sicurezza al confine meridionale. Viene soprattutto rispolverata la norma “Remain in Mexico”, che prevede che il migrante attenda oltre confine, quindi in Messico, una risposta alla sua richiesta di asilo (il Messico ha peraltro già escluso la possibilità che ciò possa avvenire).
“In un governo diviso, dobbiamo trovare un compromesso e ognuno deve rinunciare a qualcosa”, ha spiegato Mike Lawler, il repubblicano dello Stato di New York che ha contribuito a scrivere il nuovo testo. Su di esso, non si sono ancora pronunciati i principali protagonisti dello scontro. Lo speaker Mike Johnson resta per il momento fermo al suo no alla misura approvata dal Senato (del resto, questa è la volontà del suo padrino politico, Donald Trump, che ha chiesto ai repubblicani di non approvare alcuna intesa che possa attenuare la crisi al confine, che Trump vuole usare come arma polemica in campagna elettorale). Biden continua invece a sostenere la misura originaria e anzi mostra come il finanziamento alla guerra ucraina costituisca un’opportunità. “Mentre mandiamo equipaggiamento militare in Ucraina – ha detto martedì – spendiamo il denaro stanziato qui negli Stati Uniti d’America. In posti come l’Arizona, dove vengono costruiti i missili Patriot; in Alabama, dove costruiamo i missili Javelin; in Pennsylvania, Ohio, Texas, dove produciamo i proiettili di artiglieria”. Secondo Biden, dei 60 miliardi stanziati per l’Ucraina, 38,8 resteranno negli Stati Uniti e andranno a finanziare progetti e lavoro nelle industrie nazionali. In altre parole, Biden ricorda come l’invio di armi all’Ucraina non risponda soltanto agli obblighi americani nei confronti degli alleati, ma abbia anche una serie di benefici concreti per l’economia USA.
Se per il momento non c’è ancora una risposta ufficiale da parte di Johnson e Biden, è comunque molto probabile che un’intesa, alla riapertura della Camera, ci sarà. In questo senso va la notizia che filtra in queste ore dalla Casa Bianca, secondo cui Biden starebbe pensando a un ordine esecutivo per impedire ai migranti di chiedere asilo negli Stati Uniti, nei momenti in cui gli arrivi al confine superano le 5000 unità al giorno. Si tratterebbe, in pratica, di una chiusura del confine, che risponde alle richieste dei repubblicani e che potrebbe allentare la loro opposizione agli aiuti all’Ucraina. Fonti dell’amministrazione raccontano anche di un’altra novità legata all’invio di armi a Kiev. Casa Bianca e Pentagono sarebbero infatti pronti a fornire all’esercito di Kiev sistemi missilistici Atacms a lungo raggio. Dopo molte resistenze, a fine 2023 Biden si era convinto a inviare in Ucraina un lotto di sistemi Atacms di tipo MGM-140 M39 A Block 1, con un raggio di lancio di 165 km. In quel modo, Biden aveva superato una sorta di linea rossa che sino a quel momento si era imposto. E cioè fornire armi, ma non sistemi missilistici che avrebbero consentito agli ucraini di colpire all’interno del territorio russo. Ora a Washington si pensa di valicare ulteriormente quell’immaginaria linea rossa, inviando a Kiev la versione più recente e sofisticata degli Atacms, quella a lungo raggio, capace di colpire obiettivi distanti anche 300 km. I nuovi sistemi missilistici, finanziati proprio con il nuovo pacchetto di aiuti votato dal Congresso, consentirebbero all’Ucraina di colpire obiettivi all’interno della Penisola di Crimea, controllata dalla Russia dal 2014.