Dopo la delibera con cui il 31 gennaio scorso l’Antitrust lo ha dichiarato incompatibile con la carica di sottosegrtario alla Cultura, Vittorio Sgarbi ha prima rassegnato le dimissioni “irrevocabili e con effetto immediato”. Poi chiesto di consegnarle in mano alla premier Giorgia Meloni, che invece lo batte sul tempo e le accetta mentre è in Giappone. E infine il distinguo: “Mi dimetto, ma non per l’Antitrust: e il Tar mi darà ragione”. Nell’attesa della camera di consiglio, fissata per il prossimo 6 marzo, un primo no è già arrivato. Il Tar del Lazio ha infatti respinto la sua richiesta di sospendere urgentemente l’efficacia della delibera che ne dichiara l’incompatibilità nella carica di governo per avere “svolto attività professionali in veste di critico d’arte, in materie connesse con la carica di governo in favore di soggetti pubblici e privati”. Il presidente della prima sezione del Tribunale amministrativo, con un decreto monocratico, ha considerato che “nella specie, non sussistono le condizioni per disporre l’accoglimento dell’istanza anzidetta nelle more della celebrazione della camera di consiglio.

Prima dell’inchiesta sul Manetti rubato e sull’ormai nota candela, già nell’ottobre scorso il Fatto ha rivelato nel dettaglio quanto fosse fitta l’agenda del sottosegretario Sgarbi, tanto da mettere insieme più di 300mila euro in appena 9 mesi, anche grazie al suo capo segreteria al ministero e alla compagna, titolari delle società che fatturavano i cachet del critico, provvedendo anche alle sue necessità economiche. Nonostante la legge imponga ai titolari di incarichi politici di dedicarsi esclusivamente alla “cura degli interessi pubblici” vietando “attività professionali in materie connesse alla carica di governo”, per più di tre mesi il governo non ha battuto un colpo. Anzi, se n’è lavato le mani affidando il destino del suo sottosegretario all’Antitrust, che alla fine l’ha dichiarato incompatibile e in 60 pagine ha chiarito perché gli impegni in materie connesse con la carica violino la legge 215/2004. Scardinando uno ad uno gli alibi del critico. Sgarbi sostiene che non sono attività professionali? L’Autorità tira fuori i contratti “di prestazione d’opera” e la “stabile organizzazione di persone e mezzi a ciò dedicata”. Lui giura che sono attività “accademiche, scientifiche e divulgative”? Ma non c’è traccia di “ricerca e insegnamento”, dice l’Antitrust.

Oltre a quello di sottosegretario, la delibera dell’Autorità mette in fila ben 16 incarichi: assessore a Viterbo, sindaco di Sutri, commissario ai musei di Codogno, Presidente del Mart di Trento e Rovereto, solo per citarne alcuni. Che gli impegni fossero dunque legati alle cariche negli enti culturali? No, l’Antitrust registra partecipazioni “sempre in qualità di critico d’arte”. I compensi? Il Garante ricorda che la legge vieta le attività professionali “anche se gratuite”. E riconduce all’interesse del critico le due società, Ars ed Hestia, amministrate dal suo capo segreteria al ministero, Nino Ippolito, e dalla sua compagna, Sabrina Colle. Società che “sono risultate provvedere alle necessità economiche del prof. Sgarbi”, comprese “le spese inerenti al suo domicilio romano”. Rimborsi? No, perché le spese per gli eventi le pagavano gli organizzatori, “come risulta dai numerosi contratti acquisiti”. Che fossero attività che esulano dalle deleghe di sottosegretario?. Al contrario, sono “estremamente numerose ed estese”. Lui nega e parla di attività “puntiformi e occasionali”, tali da non “sottrarre tempo o risorse intellettuali alla carica”. L’Autorità ha calcolato “in media un intervento ogni tre giorni”. E conclude: “Il carattere temporaneo e occasionale manca del tutto”.

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