I celebri ritardi, le tantissime amanti, l’inarrestabile generosità, l’immenso talento e l’infinita popolarità: l’inafferrabile Walter Chiari è servito. “100% Walter” (Baldini+Castoldi), scritto da Michele Sancisi e Simone Annicchiarico – di cui FQMagazine vi offre un prezioso estratto – è un ritratto umano a tutto tondo, giocato su due binari narrativi paralleli (al figlio Simone l’aneddotica e l’intimità del “babbo”; al giornalista appassionato Michele il filo rosso della vita professionale e della cronaca) su una delle figure artistiche più emblematiche del dopoguerra italiano. Il teatro di rivista, il cinema, la nascita e l’esplosione della tv, e il Walter, figlio di pugliesi emigrati a Milano negli anni venti, sempre sulla cresta dell’onda dagli anni ’40 ai primi ’70, fuori e dentro Hollywood come ridere, fin quando prima cade la tegola (inventata) del brevissimo arresto per uso e spaccio di droga, e poi si fa rapido il cupio dissolvi in solitaria con la morte sul divano in un residence nel 1991 a 67 anni.
Di Chiari ricorre in questi giorni il centenario della nascita e niente più di questo librone biografico ne restituisce la poliedrica, istintiva, figura di artista libero. Comico viepiù dai monologhi prolungati sul palco (il sarchiapone, per dire) e perfino tra le pieghe del quotidiano (racconta Simone di quando si improvvisò stewart ciarliero su un aereo tra passeggeri infuriati del ritardo di un volo), attore ricercato da Luchino Visconti in Bellissima (32 ciak per una scena sola) e poi interprete di gradevolissime commediole (ne L’inafferrabile 12 spodesta il regista Mattoli e riscrive le gesta del protagonista portiere di calcio), Chiari è stato il fascinoso ragazzo col ciuffo, impacciato e spavaldo, timido e arrembante, dalla parlantina sciolta e dotta (nemmeno aveva il diploma), perfino un po’ Beppe Grillo ante litteram, conteso dalle colleghe star tra Ava Gardner (la più amata), Lucia Bosè, Elsa Martinelli, e decine di altre fin oltre i 50 anni; nonché grazioso e cronico ritardatario, dispensatore di denari ad amici e persone in difficoltà (l’attimo in cui scende dal taxi e regala il cappotto a un senzatetto intirizzito dal freddo).
Diversi i ricalcoli (altro che di destra, la battuta su Mussolini dei primi anni settanta riletta oggi ne svela la grande libertà creativa), i retroscena (la cocaina come compagna di vita fin da fine anni quaranta), il riaffiorare di verità in 100% Walter. Una per tutte: il giurato Nanni Moretti che nega categoricamente il fatto che siano arrivati ordini dall’alto per non concedere il Leone d’Oro a Chiari per la sua interpretazione maschile a Venezia nel 1986 per Romance. Insomma, gustatevelo tutto questo 100% Walter, anche solo per l’introduzione impeccabile su carisma e popolarità di Chiari da parte di un signor critico come Maurizio Porro e le rarissime parole di Mina sempre in apertura di libro, che con Chiari condivise la conduzione di Canzonissima nel 1968.
L’ESTRATTO IN ESCLUSIVA
Il caso di Bellissima sembra negare l’ipotesi di un Chiari
refrattario al dominio di un maestro e incapace di operare
se non nell’allegra e feconda anarchia del teatro o
dei set della commedia battutara. La collaborazione con
Visconti andò bene, ma il divo in ascesa non fece nulla
per ripetere quell tipo di esperienza. Una delle leggende
intorno al film vuole che Visconti, perfezionista fino al
sadismo, gli fece ripetere una scena ben 32 volte, provocandogli
una crisi di vomito. Forse per questo Walter
declinò la successive proposta per il ruolo di protagonista
in Senso del 1954 (andato poi a Farley Granger)? Oppure
lo fece perché interferiva con una tournée teatrale?
Visconti rimase stupito, forse contrariato, il loro possibile
sodalizio non decollò e per Chiari si chiuse qualche
porta nel cinema che conta, contribuendo a depotenziare
la sua carrier cinematografica.
Il buon Mario Mattòli, il regista di tanti film con Totò
e con Macario (ma non solo), che diresse Walter più
volte di chiunque altro, aveva in proposito una propria teoria:
«Walter era troppo intelligente per il cinema, un
mestiere in cui non conta tanto l’intelligenza». Mentre
Dino Risi azzardava un’ipotesi più specifica, vagamente
velenosa: «Forse perché Chiari non ha occhi, ha come
occhi due buchi neri, e il cinema è fatto con gli occhi».
Più carino Carlo Vanzina: «Era più grande del cinema».
Insomma, il percorso cinematografico di Walter è una
storia di alcuni buoni esiti, molte deviazioni inconcludenti
e parecchie occasioni mancate. Ha infatti sfiorato,
sprecato o trascurato incontri e possibilità che potevano
essere interessanti per un attore che avesse avuto a cuore
il cinema, un prerequisite probabilmente assente. Eccone
alcuni esempi. A proposito di Risi, pare che avesse
pensato a Chiari come protagonista de Il sorpasso, divenuto
poi un cult, ma l’attore avrebbe declinato l’invito
per altri impegni. Non poteva immaginare che in quel
ruolo Vittorio Gassman avrebbe ottenuto la sua consacrazione
e l’inizio di una carriera straordinaria nella commedia
all’italiana. Sarebbe stato lo stesso per Walter? È
lecito chiederselo, ma il dubbio resta. La domanda sorge
anche nel caso di altri appuntamenti mancati, come quello
con Federico Fellini.
Una sera del ’53 a Roma, Fellini – che aveva già lavorato
con i comici Peppino De Filippo per Luci del varietà
(co-diretto con Lattuada nel 1950) e Alberto Sordi per
Lo sceicco bianco (1952) e I vitelloni (1953) – assiste allo
spettacolo di Chiari Controcorrente (ci arriveremo), anzi
lo vede più di una volta. Non può essere un caso. Infatti, una sera gli fa visita in camerino, dicendogli che lo
vorrebbe nel film che sta preparando, un ruolo perfetto
per lui. «Però Walterino, devi fare il provino», gli dice
con quella sua vocetta flautata. Il giorno dopo l’attore si
presenta a Cinecittà, fa il provino e tutto va a meraviglia:
Walter è soddisfatto, Federico addirittura commosso.
Sarà lui il “Matto” nel film che si intitolerà La strada.
«Ero molto contento», conferma Walter, «consapevole
che era una grande occasione dopo tante scelte fatte un
po’alla leggera.» Qualche giorno dopo però trova tra
la posta una rosa e un biglietto. È Fellini che gli scrive:
«Caro Walter, non sai quanto mi dispiace. La produzione
vuole un attore americano per la parte. A te la rosa e a me
le spine». Rievocando l’episodio, Walter non sa valutare
se fu davvero un’imposizione o se Fellini ebbe paura di
non saperlo gestire. Ma conclude: «Quella fu l’unica vera
batosta che il cinema mi abbia mai dato».