Won’t get fooled again degli Who. Ce l’aveva piazzato lì senza un parola in più. Il brano rock che ti scioglie continuamente al primo accordo anche a distanza di decenni. Ernesto Assante, morto la scorsa notte a 66 anni per un ictus, ha sempre amato sorprendere, spiazzare, pur rimanendo nel solco della tradizione rock che tanto ha amato, ascoltato, (in)seguito. Più che un “critico” musicale, perché il critico sente nell’animo di stroncare, prima di ogni altra cosa, Assante era un appassionato e affamato conoscitore della storia della musica, un divoratore di lp, un raffinato selezionatore di brani nascosti, suggeritore di dettagli e sfumature. Fin da quando lavorava a Il Quotidiano dei Lavoratori – area Avanguardia Operaia e poi Democrazia Proletaria – poi a Il Manifesto nei primi anni ottanta, Assante poco più che ventenne invece che dai canti popolari delle mondine era stato già ampiamente folgorato dai Beatles. “I Beatles erano rivoluzionari, gli Stones ribelli. I Beatles hanno cambiato il mondo, gli Stones si sono ribellati allo status quo”, aveva spiegato sull’annosa questione presente in molti suoi libri, nonché in quelli in coppia “da fido pard” con Gino Castaldo, qualche annetto più in là di lui, insieme a Repubblica dalla notte dei tempi, quasi quasi a far più bonario battibecco e baracca musicale che altro.
Radio (Radio1, RadioCapital), web (Kataweb agli albori, Rockol), tv (da Doc all’Orecchiocchio, da Sanremo rock all’ultimissimo Ci vuole un fiore); e ancora libri, classifiche, format musicali davanti alla telecamera e dietro a scriverli. Giacca casual e pc Apple accesso sulle proprie inattese playlist, Assante ha vissuto l’epopea del rock prendendola docilmente per le corna. Osservandone dapprima curioso le radici poi innamorandosi un po’ di più di quelle nuance progressive e meno immediate rispetto alle più banali e risapute convenzioni catalogatrici. Quando di recente aveva pubblicato una nuova biografia di Lucio Battisti, oltre alla maestria e all’equilibrio con cui aveva tenuto in piedi la refrattaria intimità dell’uomo e la contestualizzazione storica dello strabordante fenomeno musicale, Assante ti sorprendeva quando doveva sintetizzare le perle del cantante rietino, preferendo il periodo più concettuale dei tardi settanta e inizio ottanta da quello più riconoscibile e popolare di fine sessanta. Altro episodio per capire la raffinata sottigliezza dell’orecchio e dell’anima di Assante è l’altra vexata quaestio sul valore dei Pink Floyd e nella fattispecie del monolite sacro di The wall. Ernesto non lo riteneva chissà che.
Il collega sodale Castaldo – e qualche miliardo di rockettari – lo elevava a bibbia. “Forse ha ragione lui – spiegava a FQMagazine – Io sono appassionato di cose piccole, che lui giudica molto piccole ma poi si ricrede”. Castaldo ovviamente le definiva “passioni incomprensibili”, ma proprio per questo con Assante ti divertivi. Ebbro, questo sì da critico di razza, di un’analisi profonda e argomentata rispetto alle proprie scelte inusuali, Assante aveva un raro dono sociale: sapeva trasmettere curiosità e passione, dipendenza e serietà rispetto ai brani, ai dischi, alle hit che lo colpivano. Su tutto, infine, l’idea che il rock, come la musica in generale, fosse qualcosa di dinamico, continuamente trasformato e trasformabile. “Il rock è morto una quantità industriale di volte. Nel ’58 tre anni dopo la sua nascita. Quando si sono sciolti i Beatles, quando è morto Jimi Hendrix. Poi è morto con il punk, con la new wave, con la fine del grunge, ma è sempre rinato. Il fatto è che il rock è un’attitudine e non un genere. Muore quando diventa un suono fisso, statico, determinato”. Speriamo che lassù, o laggiù, nel paradiso del rock ci sia qualche dio disc jockey a mettere su qualche lp per Ernesto.