Domanda: Taiwan sarà un capitolo del futuro distopico del mondo, nella titanica lotta tra Stati Uniti e Cina per la predominanza egemonica, oppure questo Cigno Nero annunciato così tante volte da essere ormai sbiancato finirà declassato a un nulla di fatto, cioè a contesa regionale?

Gli ultimi segnali sono ambigui e non promettono bene. Il più alto funzionario cinese responsabile delle politiche sull’isola dopo il presidente Xi Jinping, Wang Huning, giorni fa ha affermato che la Cina “deve combattere risolutamente il separatismo e l’indipendenza di Taipei” (‘combattere’ è la parola chiave) anche “portando avanti iniziative strategiche per raggiungere la completa unificazione con la madrepatria” – recita un dispaccio dell’agenzia statale Xinhua.

Linguaggio più duro del solito. Conferma che Pechino starebbe aumentando le pressioni per spingere l’isola ad accettare l’unificazione mentre il neopresidente Lai Ching-te, dopo la vittoria nelle presidenziali del 13 gennaio, si prepara a entrare in carica tra meno di tre mesi. Wang Huning ha parlato in veste di membro del comitato permanente del Politburo, l’organo decisionale ristretto del partito comunista, e la sua è la prima dichiarazione politica di alto livello da quando Lai, definito un “pericoloso separatista”, ha vinto le elezioni con il Partito Democratico Progressista.

Pechino rivendica Taiwan come parte del suo territorio da quando le forze nazionaliste vi si rifugiarono dopo aver perso una guerra civile nel 1949 e ora minaccia di riprendersela con la forza. L’America, ignara degli errori compiuti in nome di una arrogante presunzione egemonica (la sconfitta in Vietnam, come non fosse esistita) è da tempo impegnata ad aiutare l’isola a difendersi. Negli ultimi anni, però, da entrambe le parti, la retorica verbale e i preparativi militari si sono fatti più febbrili. La marina cinese si esercita spesso in sbarchi sulle isole circostanti. Le navi da guerra e i caccia da combattimento di Pechino attraversano abitualmente la “linea mediana” (in effetti il confine marittimo di Taiwan) e ‘molestano’ navi e bombardieri dell’America e degli alleati occidentali. Ciò è conseguenza anche della postura più assertiva che alla fine dell’anno scorso Xi Jinping ha sfoderato al bilaterale di San Francisco con Joe Biden. Il leader cinese ha detto al presidente americano: se Washington fosse impegnata a favore di “una sola Cina” – la linea ufficiale del governo Usa – allora dovrebbe sostenere l’unificazione pacifica dei due lati dello Stretto di Taiwan. Il che, ovviamente, non sta accadendo. E non accadrà.

Dunque, stando così le cose, se il braccio di ferro continua e Xi insisterà (nessuno ne dubita) nel voler portare l’isola autogovernata e non riconosciuta da nessun governo serio (nemmeno dall’Italia) sotto il controllo di Pechino, hanno ragione i sempre più numerosi corifei occidentali della guerra secondo i quali un conflitto armato è dietro l’angolo? L’America e il Dragone si preparano davvero allo scontro frontale, con il rischio che l’intera regione ne sia contaminata, e probabili devastanti conseguenze portino a una escalation globale? Agli scenari di guerra si lavora alacremente su vari fronti. Molto più che ai piani di pace. Le tensioni tra Washington e Pechino e la retorica anti-cinese sono destinate a intensificarsi nella campagna per le presidenziali americane. Due candidati diversi ma ambedue deboli come Biden e Trump sono accomunati da una mentalità e un’attitudine superficiale riscontrabile sia nei democratici che nei repubblicani: il conflitto commerciale e anche militare con la Cina è inevitabile, si pensa a Washington. Senza però che se ne capiscano le drammatiche conseguenze.

Esaminando la questione in termini geopolitici e di puro potere (non valutando cioè perdite umane, dislocazioni sociali, ricadute politiche), il costo economico di una guerra per Taiwan non può essere definito altro che enorme. Rand Corporation, think tank spesso utilizzato da Cia e Pentagono per i war game e l’intelligence, ha stimato che il confronto militare ridurrebbe il Pil cinese del 25-35% e quello americano del 5-10%. Rhodium Group, società di consulenza geopolitica, parla di “costi economici catastrofici” per ambedue le maggiori economie mondiali a cui fa capo il 43% del Pil mondiale. Oltre ai danni materiali di una guerra convenzionale che lascerebbe l’isola in rovina, gli effetti economici sarebbero pesantissimi a livello internazionale.

Taiwan produce il 92% dei chip più sofisticati per l’intelligenza artificiale e il 55% dei chip essenziali per auto e altri veicoli, laptop, tablet, smartphone, dispositivi vari, nonché infrastrutture critiche e strutture mediche. Molto più di quanto accadde durante la pandemia di Covid, i mercati finanziari crollerebbero, il commercio subirebbe un drammatico stop, le filiere di approvvigionamento sarebbero congelate. Effetto domino e carenza di beni elettronici sul mercato manderebbe in tilt le economie del mondo intero, ultra-dipendenti dai chip. Il blocco di un anno comporterebbe perdite per il settore high tech stimabili in 1,6 trilioni di dollari, secondo il Rhodium Group. E le sanzioni? Non sono servite a mettere in ginocchio la Russia, ma uno studio dell’Atlantic Council prevede che eventuali provvedimenti sanzionatori imposti dal G7 contro le istituzioni finanziarie e banche cinesi in seguito a una crisi per Taiwan potrebbero bloccare 3mila miliardi di flussi commerciali e finanziari.

Con scenari come questi, l’America e la Cina sarebbero folli ad entrare in guerra per un’isola con voglie indipendentiste. Pechino non è mai facile da interpretare, ma l’opzione preferita dai cinesi è ancora l’unificazione pacifica. Retorica a parte, in via ufficiale viene negato che esistano un piano e un calendario per l’invasione. I war game abbondano invece in America. Materiale in gran parte classificato in cui i vertici militari del Pentagono e i capi dell’intelligence Usa non nascondono la convinzione che Xi abbia già ordinato all’Esercito popolare di liberazione (Pla) di sviluppare la capacità di invadere Taiwan entro il 2027. Alcuni pensano che il conflitto sia addirittura più vicino. “Il mio istinto mi dice che combatteremo nel 2025” ha avvertito il generale Michael Minihan, capo dello US Air Mobility Command.

Entrambe le parti temono che il tempo stia per scadere. L’America ritiene che le forze armate cinesi possano presto diventare troppo forti e predominanti nell’area dell’Indo-Pacifico. La Cina mette in conto che la prospettiva di una riunificazione pacifica stia evaporando. Gli Stati Uniti devono anche valutare fino a che punto i loro ‘preparativi’ rischiano di far precipitare il conflitto. Inviare portaerei nella regione come dimostrazione di forza? Schierare truppe a Taiwan? Minacciare le forniture di petrolio della Cina attraverso lo Stretto di Malacca? Tutte azioni che da parte del governo di Pechino sarebbero considerate una provocazione, se non una vera e propria dichiarazione di guerra.

Sulla determinazione di Xi e del partito comunista per arrivare alla riunificazione non possono esserci dubbi. Chi sperava nella democratizzazione di Hong Kong ai tempi delle manifestazioni di popolo si è dovuto poi ricredere, mentre chi conosce la Cina non ha mai avuto il minimo dubbio su come sarebbe andata a finire per l’ex colonia inglese. A Taiwan si prospetta un identico copione. Sta all’America quindi non fare dell’indipendenza di un’isola lontana 12.639 chilometri dalla Casa Bianca il catalizzatore di scenari distopici che farebbero da preludio alla Terza Guerra Mondiale, evocata tante volte da molti pulpiti.

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