Un romanzo tratto da una incredibile storia vera che intreccia proprio la mafia all’antimafia in una terra, la Sicilia, nella quale spesso – molto più di quanto si pensi - i confini tra bene e male sono labili e indecifrabili
Dal 28 febbraio in tutte le librerie e negli store online il romanzo “La notte dell’antimafia. Una storia italiana di potere, corruzione e giustizia negata” di Lucio Luca, con la prefazione del direttore de “L’Espresso” Enrico Bellavia, pubblicato da Aliberti Editore. La vicenda trae spunto dal più grande scandalo dell’antimafia siciliana, quello delle Misure di prevenzione guidate da una presidente condannata in via definitiva per corruzione e concussione. Un romanzo a due voci dove “l’antagonista” è il figlio di un imprenditore, proprietario di un’azienda vinicola famosa nel mondo, accusato di essere un mafioso amico di boss importanti. Ci vorranno anni per svelare il complotto ordito ai suoi danni, come a quelli di molti altri imprenditori siciliani accusati ingiustamente e ridotti sul lastrico.
L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA
Eppure un tempo non era così la dottoressa. Un tempo, quando faceva la magistrata inquirente e indagava sui legami tra mafia e politica, arrestava boss e colletti bianchi e non aveva paura di niente e di nessuno. Lavorava come un mulo, Silvana, chiusa sempre nel suo ufficio, nel bunker del tribunale. Cercava prove contro i criminali e quasi sempre le trovava. “Io a Riina gli ho fatto prendere sedici ergastoli” era la sua frase preferita quando un nuovo “cliente”, uno di quelli a cui aveva tolto pure le mutande, andava a supplicarla in ufficio per lasciargli almeno un tetto per la sua famiglia.
Ma da quando l’avevano messa a guidare le Misure di prevenzione qualcosa in lei era cambiato. Gestire patrimoni sterminati, assegnare i beni a quell’amministratore giudiziario piuttosto che a quell’altro, maneggiare denaro che una persona normale non vedrebbe manco in dieci o cento vite intere, le aveva dato alla testa. A un amico, uno di quelli ai quali assegnava decine di incarichi milionari, perché evidentemente di lui si fidava assai, una volta l’aveva pure confidato: “Tanino, io sono Dio onnipotente. Posso fare e disfare tutto quello che voglio. Chi può dirmi di no?”.
Nessuno poteva dirle di no, su questo la dottoressa aveva ragione. Nessuno si sarebbe messo contro una macchina potentissima capace di stritolare chiunque a colpi di ordinanze e decreti di sequestro. Nessuno degli imprenditori onesti, certo, ma soprattutto di quelli collusi che pure qualche chance in più di recuperare i soldi potevano averla. Certe amicizie in alto contano sempre, figuriamoci quando si parla di patrimoni da far venire il mal di testa…
Feste, cene, borse firmate, vestiti da migliaia di euro e carta di credito che a fine mese presentava il conto. Oddio, più che a un conto somigliava a un salasso, anche perché oltre alla dottoressa c’erano pure le spese del marito e dei figli. E Dio solo lo sa quanto gli costavano quei ragazzi che di trovarsi un mestiere non avevano proprio alcuna voglia. Uno, in realtà, qualche serata la rimediava facendo il cuoco nel ristorante di Tanino, quell’amico di mamma che di mestiere amministrava beni sottratti ai mafiosi ma poi gestiva anche i suoi alberghi, locali pubblici e chissà quante cose ancora. Un altro faceva pratica da consulente nello studio legale di un amico grillino, il trend del momento. Il terzo, invece, studiava per diventare avvocato. Oddio, studiare è una parola forte: più che altro raccattava qualche diciotto nelle materie grazie ai buoni uffici di un paio di professori della sua università, a Enna. Professori che, manco a dirlo, dalla dottoressa ricevevano in cambio ricchissimi incarichi da amministratori o coadiutori di patrimoni sospetti.
Insomma, quella famiglia non navigava nell’oro, anzi. Perché se guadagni bene ma ogni mese spendi il doppio o il triplo, puoi pure stare in prima pagina sui giornali e essere invitato in tutte le case che contano, ma l’American Express se ne fotte. E se la banca non paga, capace pure che ti porta davanti a un tribunale. Che per un giudice, stimato e famoso come la dottoressa, non è affatto una bella cosa.
“Manuele, figlio mio, siamo indebitati persi. Non è possibile, non si può fare, non esiste stipendio che possa garantire queste cose. La nostra situazione economica è arrivata al limite totale, non è possibile più, completamente! Ci sono sempre nuove cose. Voi non potete farmi spendere dodici, tredici, quattordicimila euro al mese, non li abbiamo questi introiti. Ma per chi m’avete presa? Mica sono Onassis io. Non siamo ricchi di famiglia, cercatevi un lavoro vero piuttosto. Da questo momento si cambia registro”.
La dottoressa glielo ripeteva sempre ai suoi ragazzi. E pure a Lorenzo, suo marito, che pure si affannava a far quadrare i conti. Lui faceva l’ingegnere ma in realtà da qualche anno campava di consulenze, quelle che riceveva dalle altre Misure di prevenzione siciliane, tanto per non far dire a nessuno che lo favoriva la moglie. Un giro tra amici, io faccio lavorare tuo marito e tu aiuti mia moglie. Tutti lo sapevano nei palazzi del potere, nessuno fiatava. Anche perché, in un modo o nell’altro, un parente da impostare in un sequestro l’avevano tutti. E farsi nemico giusto la presidente di quella sezione non era esattamente la scelta strategica più intelligente. Adesso, però, la situazione stava precipitando…