Il 1 marzo gli iraniani sono chiamati alle urne per quello che sarà il dodicesimo rinnovo di tutti e 290 i seggi dell’Assemblea consultiva islamica, cioè il Parlamento della Repubblica islamica dell’Iran sin dal 1980. Si tratta della seconda tornata elettorale dall’inizio delle proteste popolari contro il regime iniziate nell’ottobre 2019 e la prima dalla morte nel settembre 2022 di Mahsa Amini, la giovane curdo-iraniana che era stata arrestata dalle pattuglie della Gasht-e Ershad (la polizia “morale”) ed era poi deceduta in circostanze non del tutto chiarite proprio mentre si trovata sotto la custodia delle autorità.
Affluenza a picco: è una delegittimazione del regime
Mai come quest’anno, le parole chiave delle elezioni potrebbero essere “affluenza” e “Consiglio dei Guardiani”. In un Paese in cui la partecipazione elettorale, per motivi via via differenti, dal 1980 ai nostri giorni è sempre stata abbastanza alta – una media del 65% per le presidenziali, ed attorno al 55% per le legislative -, l’affluenza al voto di quest’anno si prospetta in continuità con il netto declino iniziato qualche anno fa. In particolare a partire dalle elezioni del 2020, quando solo il 42% si recò alle urne, dato simile al 48% registrato alle presidenziali dell’anno successivo, che videro l’elezione di Ebrahim Raisi, il candidato forse più a “destra” degli ultimi 30 anni, nonché tra i più “aziendalisti”, molto vicino alle posizioni della Guida Suprema, Ali Khamenei.
Gli analisti sono quindi universalmente concordi nel prevedere l’affluenza in queste elezioni tra il 30% e il 40%, soprattutto per via di un ampio boicottaggio nei grandi centri urbani, tra i giovani e nel ceto medio, nonostante gli sforzi di promozione della partecipazione da parte dello stesso regime. Da un lato invitando come di consueto, tramite i vari dispositivi di propaganda, gli iraniani ad andare al voto per “dare uno schiaffo ai nemici (esterni) della Repubblica islamica”, dall’altro riducendo, attraverso il Ministero dell’Interno, il numero degli aventi diritto al voto da 65 a 61 milioni e infine squalificando, attraverso il citato Consiglio dei Guardiani, una percentuale di candidati più bassa di quella registrata alle elezioni di quattro anni fa. Saranno 15mila, quasi un terzo degli iniziali 49mila che si erano registrati.
La scarsa affluenza non esaurisce la questione del progressivo distacco e disincanto della popolazione: secondo un sondaggio effettuato su un campione di iraniani da Gamaan, basata nei Paesi Bassi, circa il 38% degli iraniani quest’anno non conosce nemmeno la data delle elezioni. Il dato sula partecipazione elettorale introduce un paradosso: una bassa affluenza, specie in considerazione del valore che il regime gli ha sempre attribuito, è un fattore di delegittimazione del sistema, ma allo stesso tempo rafforzerebbe il controllo sul potere legislativo da parte dei suoi sostenitori più oltranzisti. L’assemblea è già dominata dalle fazioni più conservatrici e antagoniste verso gli Stati Uniti: i principalisti – divisi in diverse correnti, tra cui una “tradizionalista”, sostenitrice di un maggiore ruolo dei religiosi, e una ultraconservatrice, in cui confluiscono diversi alti quadri delle Guardie della Rivoluzione – controllano 227 seggi, mentre la fazione riformista e moderata è titolare di una ventina di seggi, per un declino che negli anni è stato inesorabile, in modo simile – pur con altre logiche – al declino vistoso della sinistra laburista in Israele. Laconico il commento di qualche giorno fa da parte dell’ex presidente riformista, Mohammad Khatami, che ha definito queste elezioni “molto lontane dall’essere competitive e libere” e a cui ha fatto eco con parole simili Mehdi Karroubi, religioso riformista, agli arresti domiciliari sin dal 2011.
Un secondo aspetto paradossale, tuttavia, è che lo stesso fronte oltranzista risulta diviso in quattro diverse fazioni, che presenteranno quattro diverse liste di candidati. Ciò è il riflesso di una dinamica tutta interna, cioè quella che oppone i fedelissimi di Khamenei a coloro che cercano di aggirarne la centralità: in questo processo, in molti – anche nel fronte conservatore, e soprattutto nella “corrente deviante”, quella capeggiata a lungo da Mahmoud Ahmadinejad – sono stati vittime di una relativa marginalizzazione, di “khaales-saazi”, che si può tradurre con “purghe”.
Chi nominerà il successore di Khamenei?
La centralità della 84enne Guida Suprema, Ali Khamenei, rischia poi di essere l’argomento centrale dei prossimi anni, forse il tema principale anche di questa tornata. Accanto alle elezioni legislative, infatti, si terranno quelle per il rinnovo dell’Assemblea degli Esperti, il corpo di 88 religiosi, eletto a suffragio universale ogni 8 anni, che è responsabile di supervisionare l’operato della Guida, con il compito di rimuoverla in casi particolari e di eleggerne un’altra in caso di suo decesso. Le non idilliache condizioni di salute di Khamenei, accanto al dato anagrafico, gettano quindi una particolare luce sul rinnovo dell’Assemblea, ad oggi guidata dal 97enne Ahmad Jannati.
Una luce tuttavia filtrata dal Consiglio dei Guardiani, i cui membri sono nominati per metà dallo stesso Khamenei e che nel tempo è divenuto il vero insormontabile ostacolo tra il vilayat-e faqih, la gestione della cosa pubblica della classe giuridico-religiosa sciita, e un assetto più o meno democratico. Se il vaglio dei candidati alle legislative è sembrato vagamente più blando rispetto ai precedenti, quello dei candidati all’Assemblea degli Esperti appare come il riflesso dell’urgenza da parte del sistema di incanalare su binari controllati il processo di successione della Guida. Dapprima le squalifiche di candidati come l’ex membro della stessa assemblea, nonché ex presidente e vecchio amico di Ali Khamenei, cioè Hassan Rouhani, poi il parossismo dell’accettazione di soli 144 candidati in totale che significa meno di due per seggio.
La Repubblica islamica sembra entrare in una fase diversa, in cui sembra meno interessata a promuovere all’estero l’immagine di un sistema dotato di suoi corpi elettivi e le sue peculiarità democratiche, accanto a quelle evidentemente autoritarie. Il sistema sembra ricalcare oggi quel che i suoi detrattori delineavano un paio di decenni fa, quando invece sembravano esistere dei margini per una maturazione democratica che rimanesse ancorata a logiche endogene, senza interferenze esterne.
Le proteste degli ultimi anni, lo scollamento irrimediabile delle nuove generazioni, la crisi economica e l’isolamento internazionale sembrano aver concorso a polarizzare ulteriormente il quadro: ora il regime vuole sopravvivere serrando le fila del suo consenso interno, occupando gli spazi che rischiano di essere insidiati da “gheir khodi” (intrusi, outsiders) e preparando la strada a un “rinnovamento della rivoluzione” iniziata 45 anni fa. Intanto, nella giornata di mercoledì, 16 giovani attivisti per i diritti delle donne, arrestati qualche mese fa nella provincia settentrionale del Gilan, saranno chiamati a processo.