Cinema

Dune 2, Denis Villeneuve gira un film maestoso e asciutto. Il regista: “Odio i dialoghi, il potere del cinema sta nelle immagini forti”

di Davide Turrini

Più l’epica maestosità di Lawrence D’Arabia che lo strambo e mai troppo digerito David Lynch. Dune 2 di Denis Villeneuve passa il guado della possibile noia e ripetitività da sequel. Spiace ripeterci, ma la “marziale visionarietà” di un intrigante autore come il regista canadese, oramai a suo totale agio nel contesto più classicheggiante della fantascienza, si amplifica qui ulteriormente nella propria “densità compositiva tra dialoghi ridotti all’osso, solennità degli spazi aperti, soundtrack totalizzante”. Del resto Villeneuve alcuni giorni fa a Variety ha disegnato ascissa e ordinata della sua talentuosa creatività: “Odio i dialoghi, il potere del cinema sta nelle immagini forti”.

Dune 2 andrebbe davvero scomposto nelle sue lunghe sequenze/quadri in cui l’occhio dello spettatore è accompagnato verso un naturalistico e sofisticato punto di fuga lontano, inafferrabile, impossibile da inchiodare. Dopo un primo capitolo modello antefatto storico in cui Villeneuve aveva mostrato tutto il suo armamentario espressivo con lo sterminio del casato degli Atreides, occupanti del pianeta sabbioso roccioso di Arrakis, detto Dune, da parte dei malvagi Harkonnen, il secondo capitolo ricomincia dall’ultimo frammento di sospensione del primo. L’erede degli Atreides, Paul (Timothée Chalamet) e sua madre Lady Jessica (Rebecca Ferguson) rannicchiati dietro le dune sabbiose nel deserto in compagnia di un manipolo di guerrieri tuareg Fremen, popolazione indigena di Dune con tanto di tuta che conserva l’umidità corporea, per difendersi da un drappello in avanscoperta dei perfidi Harkonnen.

Tra i Fremen ci sono la guerriera Chani (Zendaya), che di Paul è innamorata, e il guerriero Stilgar (Javier Bardem), che lentamente dopo aver sfidato Paul a duello intuisce in lui la figura messianica di liberazione spirituale e in armi (tal Lisan al-Gaib) che il suo popolo attendeva da tempo. Le doti esoteriche e preveggenti di Paul e Lady Jessica rendono comunque tosti, fin dal primo episodio, i due personaggi in fuga, tanto da inclinare spesso Dune (1 e 2) su una dinamica buoni vs. cattivi tra echi western e di guerra mai troppo impari. La vulnerabilità generalizzata come segno di fermento d’azione, insomma. Nel volgere del capovolgimento di fronte e di forze, che sembra breve ma che si prende due ore abbondanti, i Fremen raccolgono tutti i loro effettivi (orde di “fondamentalisti”) e capitanati da Paul spingono, per attaccarli definitivamente, ad andare su Dune i Sardaukar dell’ambiguo imperatore Shaddam IV (Christopher Walken), già sotterraneamente alleato con il rampollo sanguinario degli Harkonnen, Feyd-Rautha (Austin Butler).

Il deserto si prende il suo immenso spazio scenico con un paio di variazioni “sotterranee” o fuori vista che diventano in campo: i vermoni giganteschi che corrono sotto la sabbia (e che Paul doma per poi condurli addirittura come armi fine del mondo contro i Sardaukar), le abitazioni sotto le rocce dei Fremen, i luoghi sacri in cui si estrae e distilla da vermi ancora in fasce l’Acqua della vita color azzurro intenso, infine lo spazio piazza di raccolta al semibuio che pare La Mecca dei fondamentalisti. Un lungo intervallo staziona in mezzo a Dune 2: un altro spazio magniloquente virato su un bianco e nero acido e chiazzato nei cieli da macchie di inchiostro (Arrival?), un’arena modello Gladiatore per far entrare in scena il villain ancor più estremo, quel Feyd-Rautha traditore e truccatore di incontri alla lama e all’ultimo sangue.

Dune 2 è intriso di una ritualità arcaica vicina alla mitologia greca, di una sottile vena di dramma shakespeariana (non spoileriamo un omicidio sul finale che è proprio del Bardo) e anche di una dose di leggero humor che si sviluppa nella presenza più prosaica di Chani in rapporto a Paul. Aspettatevi insomma uno spettacolo esteso e iperdefinito nei dettagli (segnatevi la cavalcata di Paul sui vermoni che fa letteralmente tremare non solo la poltroncina ma l’intera strada dove sorge il cinema), ma ancora di più, e pare paradossale vista la durata del film, un’asciuttezza e comprensibilità degli intrecci, nonché una rapidità di risoluzione nelle scene di battaglia e duello (leggasi: non siamo di fronte agli estenuanti scontri di eserciti di Il signore degli anelli). Ultima notazione. In un cast dove ognuno porta un piccolo mattoncino di glamour (pensate alla Rampling sotto velo e a Walken…sottovuoto), va sottolineato come Villeneuve sia ad oggi l’unico regista che riesce a tenere a bada, e che anzi rivolta a favore dell’intrepido racconto, tutto il fastidioso narcisismo di Chalamet, qui davvero in grande e maturo spolvero. Segnatevi le location: Giordania ed Emirati per gli esterni desertici, gli Origo Studios di Budapest per altri esterni più canonici e infine pure il Memoriale Brion in provincia di Treviso per le architetture che fanno da sfondo agli spazi imperiali dei Sardaukar.

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