Un rigore non dato a favore. Tre espulsioni contro, la prima a seguito di un’azione in cui il gioco avrebbe dovuto essere interrotto e i calciatori della Lazio si erano fermati, la seconda evitale, la terza inesistente. Il tutto nemmeno 24 ore dopo che il presidente della Lazio aveva annunciato più o meno pubblicamente la sua intenzione di portare la FederCalcio in tribunale per smontare il sistema. Dicono che a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina. Ed in effetti l’arbitraggio di Lazio-Milan – partita decisiva per la corsa Champions che i padroni di casa avrebbero meritato di vincere e invece hanno perso chiudendo addirittura in otto – è stato talmente surreale da assomigliare davvero a un complotto. Ma non è questo il caso.
Parliamoci chiaro. Ci vuole fantasia a immaginarsi il tragicomico Di Bello come sicario implacabile del n.1 della Figc Gabriele Gravina. Anche perché Gravina quando negli ultimi anni ha colpito i suoi avversari (e lo ha fatto) ha usato modi più efficaci e discreti di un arbitro in serata no che si muove come un elefante in una cristalleria. D’accordo, stavolta la tempistica è davvero infelice. E fa particolarmente effetto la somma degli episodi, la straordinaria caparbia con cui il direttore di gara è andato ostinatamente contro il buon senso dal primo all’ultimo minuto, una squadra ridotta addirittura in tripla inferiorità numerica (non succedeva da 11 anni). Ma di topiche arbitrali ne abbiamo viste pure di peggiori, anche quest’anno, una su tutte: l’incredibile rigore non fischiato al Bologna contro la Juventus. Pure all’ora, guarda caso, c’era Di Bello. Lazio-Milan, insomma, non è stata la prima né sarà l’ultima direzione di gara scandalosa, ma più che di un fantomatico complotto è il frutto di un fischietto poco capace che è andato nel pallone in occasione della rocambolesca espulsione di Pellegrini e non si è più ripreso.
Le dichiarazioni di Lotito – che nel post-partita ha parlato di “sistema inaffidabile” e paventato azioni nelle “sedi preposte”, non si è ben capito quali – andrebbero allora archiviate come le solite boutade a caldo di uno dei presidenti più istrionici della Serie A, se non fossero in realtà terribilmente serie. Nascondono più dell’irritazione per un arbitraggio sfavorevole. Anzi, provocatoriamente si potrebbe dire che una sconfitta così polemica sia proprio ciò che serviva a Lotito per sollevare il polverone che voleva, e che Di Bello quasi gli abbia fatto un favore. Perché non poteva esserci assist migliore per la sua battaglia politica.
Da settimane il senatore-patron Lotito ha ripreso la sua offensiva al palazzo del pallone. Contro il presidente della Figc, Gabriele Gravina, suo storico nemico, e in generale il sistema che rappresenta. L’oggetto del contendere è la riforma del calcio italiano, il piano che sta elaborando la Figc di Gravina (svelato in esclusiva dal Fatto) e la rivendicazione della Serie A, guidata da Lotito, di contare di più, anzi magari proprio di staccarsi dalla Federazione. Siamo arrivati al punto delle minacce e delle carte bollate. Lotito aveva già deciso di “fare causa” alla Figc, e questo ben da prima di Lazio-Milan: la sua intenzione, ormai condivisa anche in Lega Calcio, è quella di portare l’ordinamento federale davanti alla giustizia ordinaria, per ottenere un pronunciamento in stile Superlega, e rivoltare il sistema. Adesso ha il pretesto perfetto per farlo. E magari sull’onda emotiva degli episodi dell’Olimpico si aggiungerà anche la crociata (sacrosanta) sull’indipendenza dell’Aia, l’associazione degli arbitri, che non dovrebbero essere legati alla politica, perché ciò può insinuare il dubbio che possano essere legati anche ai suoi interessi. Venerdì la Lazio è stata penalizzata, Lotito ha ragione a lamentarsi. Però stia tranquillo: non c’è nessun complotto contro la sua squadra. Gli arbitri italiani sono solo terribilmente scarsi. Ma questo forse il presidente della Lazio lo sa già.