Roberto Benigni, Enrico Berlinguer, il turpiloquio libero, il comunismo vero, la storia del cinema. Lunedì sera su La7 è andato in onda un angolo di televisione di rara prelibatezza. La prima tv del film di Giuseppe Bertolucci, Berlinguer ti voglio bene, datato 1977. Ad introdurlo il protagonista irrefrenabile e sulfureo di allora assieme al sodale Corrado Augias nello spazio di La Torre di Babele. Benigni è finalmente tornato con la memoria ai fasti del sublime di Televacca e ad una scommessa cinematografica che non accadrà mai più. “È un film che non si fa definire, è come la Cumparsita, intramontabile. Potrebbe essere suburbano, sottoproletario, un film politico, un documento, un film porno. Guardate il linguaggio: sembra Rabelais, è Gargantua, è un discorso sul linguaggio sottoproletario toscano. A quell’epoca le case del popolo toscane erano una palestra di democrazia come non ne sono mai esistite. Adesso non ci sono più, sono tutti locali di lap dance, sono state spazzate via dal vento come Macondo”, ha spiegato Benigni sollevando il solito polverone spettacolarizzato di paragoni e similitudini.
Peccato, invece, che non si possa ascoltare una riflessione seria sgravata dalla recita da citazionismo dotto. Perché Berlinguer ti voglio bene è uno di quegli esempi di cinema privo di remore morali, di lacci autoimposti, carico di una libertà creativa e di una franchezza politica fuori dall’ordinario. In pratica fu l’osservazione spiccia, diretta, prossima, irresistibile dell’alto concettuale verso il basso corporeo, in una fusione orizzontale dello sguardo da parte di un regista comunista (Giuseppe, come il fratello Bernardo, figli del poeta Attilio) sulla naturalezza viscerale del popolo, qui in versione Cioni Mario (Benigni), sottoproletario perdigiorno nello spazio popolare pratese, avventore quotidiano di sale porno, dedito all’abbordaggio di una ragazza sulle piste del liscio nelle Case del Popolo, vittima di uno scherzo atroce degli amici, infine straordinario scurrile e disperato interprete di un monologo privo di freni inibitori su vita e sesso.
“E’ il comunismo fatto vivere come una fiaba, non si poteva non essere comunisti a quell’epoca, lei lo sa (si è rivolto Benigni ad Augias ndr) che il comunismo, il marxismo non è una scienza, è un grido di dolore”. Prodotto da Gianni Minervini e dai fratelli Antonio e Pupi Avati, Berlinguer ti voglio bene all’epoca non ebbe successo in sala, ricevette un freddo interesse della critica. Tra i tanti momenti del film rievocati da Benigni ci sono situazioni provocatorie su questioni di genere che oggi diventerebbero materia di esposti di associazioni Lgbtq. “Pole la donna permettisi di pareggiare coll’omo? s’apre il dibattito”, ha ricordato Benigni citando una frase pronunciata nel film. “Era la fotografia di ciò che accadeva nelle case del popolo qui naturalmente è traslato dall’arte quindi diventa tutta un’altra cosa però questa è una delle scene del film diventate mitiche”.
Infine il comico toscano, ultimamente riapparso per gigioneggiare oltre i momenti retorici sanremesi, ha voluto ricordare il segretario del Partito Comunista di allora, Enrico Berlinguer: “Il popolo amava veramente Berlinguer, quel Berlinguer che io presi in braccio tre anni dopo il film, nell’81. Era un’iniziativa per la pace, a Roma, io non ero comunista, venivo da una famiglia socialista ma Berlinguer lo amavo, andai là e mi dissi ‘devo fare qualcosa per manifestargli la mia gioia’. Dopo averlo preso in braccio venne il suo segretario personale, Antonio Tatò, mi disse ‘ se l’avesse fatto tre anni fa non sarebbe uscito vivo, le avrebbero sparato’. Di quella foto fecero le gigantografie in ogni casa del popolo d’Italia: era l’immagine del partito che cambiava, e cambiò la maniera di tutti i segretario degli altri partiti di presentarsi in pubblico”.