di Paolo Bagnoli
Come avviene in occasione di ogni competizione elettorale, alle analisi di quanto in effetti sia successo e delle conseguenze che ne possano scaturire, le parole inseguono le parole. In tempi di media e di dibattiti televisivi, poi, il rito finisce per complicarsi. Infatti, come ogni italiano nasconde in sé un bravo allenatore di calcio, altrettanto bravo lo è nello strologare di politica; ogni italiano, così, è tanto allenatore quanto politologo e se si sta dietro al profluvio di chiacchiere cui siamo sommersi, si finisce per perdere la strada per tornare a casa.
Con ciò non è che manchino analisti seri e competenti che forniscono al lettore o all’ascoltatore il succo delle cose in modo chiaro e con le parole strettamente necessarie. L’unica a balbettare è stata l’informazione televisiva di Stato, costretta a soffocare in gola i peana preparati per celebrare l’irresistibile marcia di Giorgia Meloni chiusasi nel silenzio. Oramai ci ha abituato: quando viene colpita tace e, successivamente, per uscire dall’angolo, radicalizza le posizioni, come è avvenuto nel caso dei fatti di Firenze e di Pisa attaccando il Presidente della Repubblica, sui quali era più che opportunamente intervenuto.
Il voto sardo ci dice alcune cose semplici e chiare:
1. La presidente del Consiglio, per apparire quella che non è, ha bisogno di passare di successo in successo – per dimostrare che quanto da lei deciso è la decisione giusta e vincente. E quindi, poiché è sempre nel giusto e mai perdente, le decisioni non possono che spettare a lei e solo a lei. In Sardegna è successo così: ha imposto il candidato e questi, distaccato di ben venti punti nella città capoluogo di cui era sindaco, ha fatto sì che proprio quei venti punti che ha perso abbiano costituito il motore della vittoria della candidata alternativa.
Alessandra Todde deve la propria vittoria al voto di Cagliari. Il venti per cento che ha conquistato in più rispetto a Truzzu ha smascherato l’immagine meloniana. Si è trattato di uno schiaffo sonoro, del rifiuto dell’arroganza come metodo politico. Nel caso poi del candidato di un’alleanza, non è detto che questi debba essere espressione del partito maggiore, ma colui che i contraenti l’alleanza ritengano essere la figura più idonea per rappresentarli tutti. Il caso Truzzu ha confermato inoltre, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno, quanto la destra sia carente di una vera classe politica.
2. L’alleanza Pd-5Stelle ha vinto. Oltre ai meriti propri della candidata, ciò rappresenta indiscutibilmente una vittoria della linea Schlein che l’ha perseguita con ostinazione, costringendovi un Giuseppe Conte assai titubante. L’ex presidente del Consiglio, infatti, riteneva che non legandosi ai democratici li avrebbe sopravanzati nel voto popolare invertendo i rapporti. Così non è stato e ora fare da altre parti diversamente da quanto è stato fatto in Sardegna sarà difficile. La segretaria del Pd ora dovrà mollare anche l’ipotesi del campo largo, di cui peraltro è sempre apparsa poco convinta poiché, se Conte fosse andato per conto suo e Schlein con Soru e Calenda, avrebbero perso entrambi e la destra avrebbe vinto.
L’alleanza 5Stelle-Pd, secondo il test sardo, dice che la destra si può battere; adesso c’è da vedere come si mettono i rapporti tra le due forze vincitrici, perché Conte sarà indotto ad alzare la voce, ma Schlein non potrà sottostare a tutto quanto i contiani – chiamarli grillini è ormai superato – richiederanno. Certo che la destra si può battere, ma se tutto il gioco corre sul filo della logica governista non è azzardato prevedere lacerazioni interne in ognuno dei due soggetti.
Per battere la destra occorre avanzare l’idea di un’Italia alternativa a quella di chi ci governa. Ma qui si naviga nelle nuvole, poiché né i 5Stelle né il Pd hanno solide culture politiche di riferimento e senza di esse il necessario compromesso appare molto problematico. In tale ambito rientra pure la questione, praticamente ignorata, dell’astensione che quando sfiora il 50% non è solo un dato statistico. Esso ci dice molte cose; tra queste, ci ha dato conferma di quanto si avverta la mancanza di una forza di sinistra nuova, “riformatrice e rigorosa” come ha scritto Stefano Folli (La Repubblica, 1 marzo 2024). Osserviamo come l’assenza di un soggetto socialista e liberale di cultura politica azionista rappresenti una delle questioni centrali della nostra lunga e logorante crisi politica.
La destra sconfitta si è sforzata nel dire che, nonostante il risultato ottenuto, ha guadagnato voti. Siamo al di là del bene e del male. I confronti in materia si fanno nella valutazione comparata con l’ultima elezione avvenuta, in questo caso con le politiche 2022, voto alla Camera. Allora FdI prese il 23,6%, ora il 13,6%; la Lega il 6,3%, ora il 3,7%; Forza Italia l’8,6%, ora il 6,3%. Le cifre parlano chiaro. I vincitori non hanno avuto bisogno di spargere bufale come ha fatto la destra, ma le percentuali riportate dai singoli soggetti sono inferiori a quelli del 2022: il Pd allora prese il 18,7%, oggi il 13,8%; i 5Stelle il 21,8% e oggi il 4,7%; l’Alleanza Verdi e Sinistra il 5,1% e oggi il 4,7%. Ciò che è inconfutabile è che il Pd ha lo 0,2% in più dei FdI.
In conclusione: la vittoria di Todde fa rinascere la speranza in un’Italia migliore rispetto all’attuale, ma ciò ha ben poco a che vedere con i nodi critici della politica democratica italiana, che rimangono tutti presenti sul tavolo.
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