La decisione francese di introdurre il diritto all’interruzione di gravidanza in Costituzione non arriva inattesa, ma richiede una riflessione lucida e libera da ideologismi sulla natura dei testi costituzionali e sulla opportunità di certe revisioni.

È sempre stato fuori discussione che “una generazione non possa assoggettare alle sue leggi le generazioni future” – come scrivevano già i rivoluzionari francesi nel 1793. Ma è egualmente certo che una Costituzione non si può modificare senza una riflessione più grave del solito. Questo almeno da quando le Costituzioni non sono più concesse dall’alto “con lealtà di Re e con affetto di Padre”, ma sono invece l’espressione di un potere costituente democraticamente formato, dal basso.

Quel passaggio storico è fondamentale per la più esatta comprensione della natura del testo costituzionale. Quelle concesse dal Sovrano erano Costituzioni che strappavano una garanzia ai sudditi, e proprio in quanto tali erano perpetue e irrevocabili – come recita il preambolo dello Statuto albertino – soltanto per il Sovrano, ma non certo per il Parlamento, titolare della rappresentanza democratica, che poteva invece liberamente modificarne il contenuto.

Le Costituzioni contemporanee, però, non sono più una graziosa concessione che viene dall’alto. Si tratta, invece, dell’espressione dal basso – ad opera di un processo costituente democraticamente partecipato – di quella che essenzialmente è una scelta di valori su cui si forma un consenso il più ampiamente possibile condiviso, e su cui si fonda il nuovo stare insieme. Un pactum unionis, insomma, su cui tutti (o quasi tutti) i consociati sono d’accordo, con l’intendimento che sarà il rispetto da parte di tutti proprio di questo patto a garantire in definitiva la tenuta del pactum subjectionis, che è quell’accordo di tutti i consociati di cedere una quota della propria libertà al potere politico, perché questo garantisca la sopravvivenza della società.

Va da sé, dunque, che questa Costituzione va tenuta ben al riparo dal rischio che sia rimessa in discussione senza che ne ricorrano le condizioni, ossia senza che sia venuta formandosi una nuova generale condivisione sul piano dei valori. È questo il senso delle procedure aggravate previste per le revisioni dei testi costituzionali, volte ad assicurarsi che la modifica in questione sia sorretta (non dalla semplice maggioranza politica, ma) da una maggioranza che sia quanto più vicina alla generalità dei consociati.

Una volta si diceva sapientemente che questi aggravi procedurali dovrebbero funzionare come le corde che legavano Ulisse all’albero della nave: perché non si ceda al canto delle sirene, e si finisca per gettarsi a mare. Quando però in Parlamento hai numeri molto alti, quella di infilare in Costituzione qualcosa che sta a cuore a te e al tuo elettorato per sottrarlo così all’ordinario gioco politico è una tentazione troppo forte, che neanche le corde di Ulisse riescono a fermare. Ma questo è lo snaturamento del senso di una Costituzione: invece di arricchire il pactum unionis con qualcosa su cui si sono formati dei processi di naturale convergenza e condivisione valoriale, vi si introduce qualcosa proprio per sottrarla ai rischi di questi processi.

La tentazione non risparmia proprio nessuno, in Italia e fuori. In Italia, ci sarebbe da chiedersi se il progetto di uomo forte al comando che la destra intende costituzionalizzare – e che oltre ai risvolti meramente istituzionali ha un contenuto valoriale ben rilevante, perché tocca rappresentatività, stabilità, eguaglianza del voto, dunque democrazia nel suo hard-core – ha un livello di condivisione sociale tale da meritare di entrare nel pactum unionis. Il fatto che la maggioranza oggi abbia dalla sua l’arroganza dei numeri per farlo non significa che la scelta sia rispettosa del senso di una Costituzione.

Così come ci si potrebbe interrogare sulla scelta francese di inserire in Costituzione il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza. Il punto non è, beninteso, il merito della scelta, ma l’opportunità della sede; e forse non è scarsamente significativo che la Francia sia il primo e unico paese del mondo a costituzionalizzare l’aborto. Con una responsabilità del Presidente francese molto forte, posto che ha scelto – come la Costituzione gli consente – di eludere l’ostacolo del referendum popolare e di prendere la strada dell’approvazione da parte del Parlamento in seduta comune con il voto dei tre quinti.

Scelta adeguatissima, se in Francia esiste una condivisione sociale così ampia sul diritto all’aborto tale da giustificarne l’inserimento in quel nucleo di valori il cui accordo condiziona la tenuta di tutto il sistema. Decisamente meno se l’operazione è quella di sottrarre il diritto all’interruzione volontaria della gravidanza ai rischi di un dibattito politico in cui esistono ancora forti contrapposizioni.

In Costituzione si mette ciò su cui si è (quasi) tutti d’accordo; non quello che si vuol mettere al riparo perché non siamo tutti d’accordo. Se non è così, il rischio è che – venuto meno il pactum unionis – presto o tardi tutto crolli, come forse sta già crollando.

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