Arriva in libreria, per la Giornata Internazionale della donna, Donne che lavorano troppo (Women Who Work Too Much), di Tamu Thomas, edito da Compagnia editoriale Aliberti: ecco alcuni estratti in anteprima esclusiva
In contemporanea con l’edizione anglosassone, arriva in libreria, per la Giornata Internazionale della donna, Donne che lavorano troppo (Women Who Work Too Much), di Tamu Thomas, edito da Compagnia editoriale Aliberti. Tamu Thomas, scrittrice e life coach fra le più apprezzate nel Regno Unito, lancia un manifesto per un nuovo femminismo, post-ideologico e imperniato sulla consapevolezza che le donne possono acquisire del loro grande potenziale, “a patto che lo vogliano veramente”. Liberarsi dalla morsa oppressiva del patriarcato; sfuggire alla trappola della produttività tossica; costruire nuovi confini, per salvaguardare la libertà fondamentale di avere tempo per il piacere e per la realizzazione personale. Solo così, secondo Tamu Thomas, le donne del terzo millennio possono evitare il burnout che pende come una spada di Damocle sulle loro teste e vivere il quotidiano con gioia. “Ti ritrovi a dire sì perché non ti è mai stato insegnato a dire no”, ricorda la Thomas: solo se diventano consapevoli dei condizionamenti subiti sin dall’infanzia le donne potranno realizzare la vera liberazione. Come per il fatto di sentirsi costantemente inadeguate: “Molte di noi credono che per essere la nostra miglior versione dovremmo fare di più, ma il risultato è spesso stress, burnout e disillusione”. Una liberazione integrale quella che ci propone la Thomas, che non sarà certo indolore, avverte la scrittrice. Bisognerà combattere contro gli stereotipi del mondo esterno, e anche con quelli che le donne hanno interiorizzato nel corso dei secoli. Ma si può fare – questo il messaggio. Perché ne vale la pena. Perché in ballo c’è la propria vita, e non solo: è dalle donne e dalla loro liberazione, secondo la Thomas, che passa la battaglia fondamentale per una società più giusta e solidale.
ESTRATTI
[…] In una giornata soleggiata del settembre 2017, mi sono svegliata con un mal di testa dovuto alla tensione e con un dolore pulsante ai seni. Quando ho aperto gli occhi, mi sono resa conto che mi sentivo la testa pesante, il collo rigido e la mascella contratta. Questo è un modo con cui il mio corpo mi dice che sto provando ansia. L’ansia è il modo in cui il nostro corpo comunica il terrore reale o percepito. Avevo mal di testa ed ero rigida da così tanto tempo che accettavo tutto questo come una parte normale dell’essere madre e professionista. Avevo normalizzato le sensazioni di terrore e superare questi sintomi era percepito da coloro che mi circondavano come una forza – spesso venivo elogiata per questo. […]
Negli ultimi dieci anni, questa è stata la mia routine mattutina: ignorare i segnali del mio corpo e i suoi bisogni in modo da poter essere produttiva – uno dei tanti modi in cui incarnavo consapevolmente lo stereotipo della “forte donna nera”. […]
Una volta alzata, quella mattina, fui accolta dai sentimenti familiari di paura e panico. Le mie viscere sembravano ingranaggi che giravano rapidamente. Il mio cervello ha iniziato la sua consueta pratica di pensare troppo e catastrofizzare mentre rimuginavo sul mio lavoro, chiedendomi se quello e, quindi, io, fossi abbastanza brava.
Quella mattina la situazione si era aggravata perché dovevo fornire la testimonianza come esperta in un caso giudiziario. Ero un’assistente sociale e testimoniare in tribunale era una parte normale del mio lavoro. In effetti, ero molto molto brava nel mio lavoro. Così mi ero detta di non essere turbata e ho ricordato a me stessa che sono una dura e i miei consigli equilibrati e giusti.
Ho passato in rassegna tutte le cose che sarebbero potute andare storte e ho immaginato tutti i modi in cui avrei potuto “dimostrare” di essere professionale se fosse successo il peggio. Per me, la cosa peggiore era sentirsi dire che avevo commesso un errore e/o non avevo lavorato abbastanza duramente. […]
L’ipervigilanza è un’abilità intergenerazionale che ho ereditato dai miei genitori, avi e antenati. […] Ha i suoi vantaggi, ma gli svantaggi superano di gran lunga i benefici. Ad esempio, il superlavoro ti sospende in uno stato perpetuo di “non abbastanza” che devasta la tua energia vitale. Questa non è una questione individuale. È sistemica. I nostri sistemi sono progettati per forzarci senza che ce ne rendiamo conto, distruggendo i nostri sentimenti e mercificando noi stesse in modo da poter continuare a consumare. Nel mio caso il consumo non era più un’opzione. Consumare elogi, corsi, libri e strategie non era sufficiente per mettere a tacere i segnali del mio corpo che mi chiedevano di prendermi cura di me. […]
Ciò nonostante, quel giorno mi recai in tribunale; dovevo essere professionale e tenere duro, palpitazioni cardiache o no. In metropolitana sentivo sempre più caldo. Sulla scala mobile, ho cominciato a sentirmi svenire e sentivo le mie mani sudare. Mentre lasciavo la stazione, il cuore mi batteva forte contro il petto e sentivo il battito nelle orecchie. Avevo la bocca secca e all’improvviso mi sono sentita come se le mie ginocchia fossero scomparse. Per un momento mi sono chiesta se fosse il caso di chiamare un’ambulanza, ma mi sono subito detta che sarebbe stato ridicolo. Sono riuscita ad arrivare alla fermata dell’autobus e ad aggrapparmici, con la fronte grondante di sudore, i miei capelli ben pettinati che cominciavano a incresparsi alla radice. Mi sentivo come se avessi dimenticato come respirare.
Indossavo un’elegante gonna a tubino e un blazer aderente. Le mie scarpe erano lucide e la mia borsa di pelle nera affermava che ero un professionista che faceva cose da professionista, eppure eccomi qui aggrappata alla fermata dell’autobus con l’aria di chi avesse preso l’Lsd. La gente mi guardava con aria interrogativa, incerta su cosa fare o dire a quella donna ben vestita che sembrava aver fatto un brutto viaggio.
Ho fatto un po’ di respiri profondi e mi sono concentrata sul prolungare l’espirazione. Quando il mio respiro ha cominciato a calmarsi, mi sono ricordata di concentrarmi sui miei sensi e mi sono chiesta cosa potevo vedere, annusare, toccare, gustare e sentire. In qualche modo sono riuscita ad arrivare in tribunale e a fornire prove da esperto. Ero sollevata di non aver deluso nessuno e che la mia professionalità fosse stata elogiata.
Il giorno dopo ho fissato un appuntamento per vedere il mio medico di famiglia. Mi ha offerto farmaci anti-ansia e un rinvio per la terapia cognitivo-comportamentale, poiché i miei sintomi indicavano depressione e ansia “grave-moderata”. […] Ho avuto una consulenza telefonica con uno psicologo che mi ha detto che quelli a cui mi riferivo come periodi di forte ansia – come quel giorno mentre andavo in tribunale – erano, in realtà, attacchi di panico.
Alla fine, ho ricevuto un campanello d’allarme troppo forte per essere ignorato. La mia attenzione all’essere utile, produttiva e adeguata mi aveva reso un’estranea ai miei occhi. Ho deciso di dover fare amicizia con me stessa. […]
Una volta che ho capito il mio modello di produttività tossica, tutto è andato a posto. Da lì ho cominciato a vederlo riflesso ovunque, come una palla di specchi da discoteca.
L’ho visto nella mia famiglia, nei miei amici, nei colleghi, in tv e su tutti i social media. Sembrava di vivere in una pentola a pressione e il fischio iniziava a farsi sentire. Man mano che la pressione aumenta, aumenta anche il fischio. La pressione è così intensa che hai paura di ciò che c’è dentro, quindi ti distrai con la tua occupazione perché non hai mai veramente imparato a mostrare attenzione a te stessa. Questa consapevolezza mi ha fatto sentire abbandonata e abbastanza arrabbiata da sapere che dovevo agire.
Dal Capitolo 7
Valorizza le tue connessioni
Fin dai primi giorni della nostra esistenza […] le strutture sociali possono portarci a soffocare i nostri veri bisogni. […] “Sii gentile, non sincera”. “Accontentati, non avere bisogni”. “Non fare scenate, sii modesta”. “Smettila di fare storie; altre persone stanno peggio”. Impariamo a negare le nostre emozioni più forti, a seppellire il nostro sé autentico sotto strati di stoicismo, positività e convenienza. Ciò che rimane è una patina lucida e compiacente che si allinea con la definizione prescritta di femminilità stabilita dalla trinità dell’oppressione. Finisci per vivere una vita frammentata in cui la tua verità è così dispersa che hai difficoltà a vederti nella tua interezza.
[…] Percepiamo qualsiasi vulnerabilità reale come una minaccia. […] Invece, diventiamo ipervigilanti anche nelle nostre relazioni più care e ci ritiriamo dalle esperienze che ci rendono umane, perché la nostra mancanza di competenza emotiva mette a dura prova la nostra fiducia e ci fa sentire vulnerabili. Siamo state condizionate a reprimere le nostre emozioni ed esercitare un controllo eccessivo su come ci permettiamo di provarle e su come ci permettiamo di essere viste dagli altri. […] Ci fa sentire come se dovessimo proteggerci proprio da ciò di cui abbiamo più bisogno: la connessione.
La misoginia interiorizzata
La misoginia interiorizzata […] può penetrare sottilmente nella nostra coscienza, esprimendosi attraverso pregiudizi inconsci o, più apertamente, attraverso l’ostilità verso le donne e i tratti “femminili”. Per gli uomini, genera un conflitto interno – una battaglia per l’auto-accettazione – in cui le narrazioni sociali promuovono il rifiuto di qualsiasi cosa associata alla femminilità all’interno della propria identità.
Durante le ricerche su questo libro, mi sono ritrovata negli abissi di TikTok, pieni di creatori di contenuti e podcaster, che condividevano ciò che posso definire come delle visioni preistoriche sulla necessità che gli uomini siano coloro che provvedono alla famiglia e le donne siano sottomesse. Ci sono creatori di contenuti che insegnano alle donne come “stare nella loro energia femminile” e agli uomini come “stare nella loro energia maschile”. Nonostante sia allarmata a livello di coscienza da questo, devo confessare che, nel profondo, sono attratta dall’idea di un partner maschio che guadagna più di me e che rimane calmo in mezzo al panico. Detto questo, non è il caso nemmeno di osare pensare di potermi dire cosa fare!
Tutto questo ci dice molto della contraddizione a volte complessa della vita. Anche se sono allarmata dalla maggior parte delle condizioni imposte dai tradizionali ruoli di genere, sono ancora emotivamente attratta da alcuni di essi. Rifiuto la misoginia del patriarcato e allo stesso tempo desidero alcune qualità “tradizionalmente” maschili.
Sarebbe molto più facile per me, a livello superficiale, respingere questi sentimenti perché rifiuto la misoginia e il modo in cui il sistema capitalistico prospera su di essa. Ma se rifiuto questi sentimenti, cado nella trappola di rifiutare nuovamente me stessa, mentre quando accolgo tutte le mie emozioni, non solo posso essere più onesta con me stessa ma anche con gli altri.
[…] Questa condizione non è un destino scritto, è solo una questione di disimparare. Disimparare queste aspettative binarie di genere. Disimparare le narrazioni che associano vulnerabilità ed empatia alla debolezza. Disimparare il condizionamento che soffoca l’espressività emotiva è la strada verso la giustizia e la vera uguaglianza. Dobbiamo disimparare collettivamente i nostri condizionamenti e non avere fretta di creare qualcosa di nuovo; dobbiamo prenderci un momento per stare con ciò che troviamo dentro di noi e negli altri e usarlo per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di vero.