La scure del governo Meloni sul reddito di cittadinanza ha già iniziato a rendere più iniqua la distribuzione del reddito in Italia. Nel 2023 l’avvio dei tagli al sussidio anti povertà, la cui erogazione è stata ridotta a sette mesi per i presunti “occupabili”, e la sua sostituzione con il Supporto per la formazione e il lavoro (Sfl) da soli 350 euro al mese hanno infatti aumentato di 0,2 punti l’indice di Gini che misura la disuguaglianza. È quello che emerge da una lettura attenta del report annuale dell’Istat pubblicato mercoledì. Da notare che l’analisi si ferma prima della sostituzione del rdc con l’Assegno di inclusione per i nuclei con minori, disabili o over 60: ancora non tiene conto, dunque, dell’esclusione di una parte importante della platea prima raggiunta dall’aiuto pubblico.

A una prima occhiata i dati sono positivi: “Le modifiche al sistema di tasse e benefici introdotte nel corso dell’anno aumentano l’equità della distribuzione dei redditi disponibili”, scrive l’istituto di statistica. “La diseguaglianza, misurata dall’indice di Gini, si riduce lievemente, da 31,9% a 31,7%; il rischio di povertà diminuisce di oltre un punto percentuale, dal 20% al 18,8%”. Ma la tavola che descrive nel dettaglio l’impatto delle principali novità entrate in vigore in corso d’anno permette di isolare l’effetto delle modifiche al Rdc e dell’introduzione del Sfl. Che fanno salire l’indice di Gini di 0,2 punti, appunto. Alla riduzione complessiva si arriva solo grazie alle modifiche all’assegno unico e universale per i figli a carico (che è stato adeguato al costo della vita e aumentato per i nuclei più numerosi e per quelli con figli sotto l’anno di età) e al potenziamento della decontribuzione per i lavoratori dipendenti con redditi bassi, che diminuiscono di 0,4 punti la disuguaglianza. Quanto al rischio di povertà, a farlo scendere sono solo gli interventi sull’assegno unico e la riduzione del cuneo fiscale.

Il report dà anche una prima quantificazione del numero di famiglie che lo scorso anno si sono viste ridurre o annullare il rdc: sono state “circa 1 milione“. In questo caso le decisioni del governo – riduzione dei mesi di fruizione – spiegano solo in parte il trend. A pesare è anche il fatto che i requisiti Isee non sono mai stati aggiornati per tener conto dell’inflazione, per cui molti nuclei che hanno visto i loro redditi reali aumentare leggermente hanno perso il sussidio nonostante il loro potere d’acquisto sia calato. Chi ha subìto un taglio ha perso in media 1.663 euro, circa 138 al mese. In quella situazione si sono trovate “quasi esclusivamente le famiglie che si collocano nel quinto più povero della distribuzione dei redditi”, sottolinea l’Istat. I nuclei percettori sono rimasti poco altrettanti, più di 1 milione: il 20% in meno rispetto al 2022. La “gran parte” ha comunque riscontrato una riduzione del beneficio rispetto all’anno precedente.

Tornando agli interventi su assegno unico e decontribuzione, l’analisi evidenzia che in entrambi casi ci sono stati vincitori e vinti. Le modifiche all’assegno entrate in vigore nel 2023 hanno determinato “un guadagno pari, mediamente, a 719 euro in più” rispetto a quanto ricevuto nel 2022 per il 92,3% delle famiglie. Un 7,7%, concentrato nella fascia più povera, ha però sperimentato una perdita, in media di 376 euro. Quanto al taglio del cuneo, portato da luglio a 6 punti per chi guadagna fino a 35mila euro e 7 per chi sta sotto i 25mila, il risultato è stato “un miglioramento dei redditi disponibili per circa 11 milioni di famiglie”, che in media percepiscono un beneficio di 537 euro in più rispetto a quello ottenuto nel 2022 quando l’esonero era più basso. Ma per poco meno di 1 milione di famiglie è arrivata la beffe: i minori contributi li hanno portati a superare la soglia di reddito di 28mila euro sotto la quale si ha diritto al trattamento integrativo dei redditi, l’ex bonus Renzi. Per cui ci hanno rimesso in media 518 euro.

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