Il nuovo piano comunitario per la Difesa presentato dalla Commissione europea si esaurisce in 1,5 miliardi di euro da investire fino al 2027. Al resto dovranno pensare, anche economicamente, i singoli Stati. Il progetto di acquisti e sviluppo tecnologico di Bruxelles, fondamentale, stando alle parole della presidente Ursula von der Leyen, per mettere in sicurezza l’Unione da possibili attacchi dal confine est e, allo stesso tempo, continuare a sostenere economicamente e militarmente l’Ucraina è molto meno ambizioso rispetto alle anticipazioni e non sembra, soprattutto, imprimere uno slancio significativo al progetto di una Difesa comune europea. Un progetto, secondo il commissario per il Mercato Interno e i Servizi, Thierry Breton, che necessita inizialmente di 100 miliardi (in eurobond) per arrivare a una svolta. Ma di quei soldi, nel nuovo piano dell’Ue, non vi è traccia.
“Gli Stati spendano di più e meglio. L’Ue ci mette 1,5 miliardi”
Delle dichiarazioni di von der Leyen aveva impressionato l’accostamento tra lo sforzo economico fatto per l’acquisto comune di vaccini anti-Covid e quello necessario a difendere i confini dell’Ue. Paragonare il coronavirus all’insicurezza dovuta alle politiche espansionistiche di Vladimir Putin ha gettato l’Europa in un clima di nuovo allarme: una guerra in Ue forse “non è imminente”, ma “non è impossibile“, gli Stati devono capire che “la pace non è permanente”, aveva detto la presidente nel suo intervento davanti alla Plenaria di Strasburgo. Ed era poi passata ad anticipare il suo piano di riarmo in funzione anti-russa: appalti congiunti nel settore della Difesa, riconversione delle catene di produzione garantendo acquisti a medio-lungo termine tipo accordi di off-take o di acquisto anticipato, ottenere l’appoggio della Banca Europea degli Investimenti e sfruttare i ricavi dai beni russi congelati.
Nel piano presentato dalla Commissione, però, di azioni comunitarie se ne vedono ben poche. Si tratta più di un appello agli Stati membri di incrementare (e ottimizzare) gli acquisti congiunti e gli investimenti nel settore della Difesa, con Bruxelles che stanzierà 1,5 miliardi per finanziare un piano di investimenti (Edip) fino al 2027 per accelerare la produzione in Europa. Nello specifico, il piano prevede un programma di acquisti congiunti per almeno il 40% delle armi entro il 2030, appalti comuni e misure per garantire che, entro il 2030, almeno il 35% dell’intero valore del mercato sia a favore dell’industria di settore europea. Sul lato dei finanziamenti, come anticipato da von der Leyen, viene inclusa anche la Bei, mentre non vi è alcun riferimento agli eurobond.
Riferimento che non si è dimenticato di fare Breton, secondo cui la Commissione deve “senza dubbio lavorare” all’idea di nuovi eurobond da 100 miliardi di euro per la Difesa “nel quadro del prossimo mandato“: “Avevo immaginato un fondo da 100 miliardi – ha detto -, ovviamente se ne dovrà discutere. Un certo numero di capi di Stato iniziano a parlarne in modo molto chiaro, è un’idea proposta dal presidente francese Emmanuel Macron e dalla premier estone Kaja Kallas, sostenuta anche dal premier belga Alexander De Croo“. Una misura che non è stata adottata nemmeno per il Covid e della quale, eventualmente, si dovrà parlare nel prossimo quinquennio, dopo le elezioni europee.
Fino a quel momento, a sborsare miliardi di euro per rimpolpare le scorte e finanziare la ricerca dovranno essere gli Stati membri. Resta da vedere se tutti saranno così sensibili al “pericolo russo” evidenziato dalla Commissione: “L’ingiustificata guerra di aggressione della Russia contro l’Ucraina ha segnato il ritorno di un conflitto ad alta intensità nel nostro continente”, evidenzia Bruxelles nel documento indicando che il nuovo quadro di misure punta a “garantire la tempestiva disponibilità e fornitura di prodotti per la difesa”. I Paesi membri sono chiamati a “investire di più, meglio, insieme e a livello europeo” e per sostenerli l’esecutivo Ue propone di rafforzare “strumenti e iniziative esistenti”, tra cui la Cooperazione strutturata permanente (Pesco), ma anche di dare nuova priorità alla base industriale e tecnologica di difesa europea integrando il settore “in tutte le politiche” comunitarie e aumentando i finanziamenti.
Un piano che prevede diversi step, degli standard che i singoli Stati devono rispettare seguendo la tabella di marcia di Bruxelles: “Procurarsi almeno il 40% delle attrezzature di difesa in modo collaborativo entro il 2030, garantire che entro quella data il valore del commercio della difesa intra-Ue rappresenti almeno il 35%” dell’intero valore di mercato, “compiere progressi costanti” verso una soglia di appalti comuni “di almeno il 50% all’interno dell’Ue entro il 2030 e del 60% entro il 2035”. Il piano di finanziamenti da 1,5 miliardi di euro dal bilancio Ue all’Edip (Programma europeo per l’industria della difesa) collegherà invece le misure di emergenza a breve termine, adottate nel 2023 e che termineranno nel 2025, a un approccio più strutturale e a lungo termine. In aggiunta, Bruxelles prevede una revisione della politica di prestito della Banca europea.
I soldi Ue? Sufficienti ad acquistare solo 58 carri armati Leopard 2
Per rendere l’idea di quanto questo piano pesi sulle spalle dei singoli Stati e di quanto scarso sia, almeno al momento, il contributo economico dell’Ue, basta mettere in relazione i fondi previsti per finanziare il piano d’investimenti Edip e i costi di alcuni sistemi d’arma già in uso agli eserciti. Prendiamo a esempio i carri armati Leopard 2, diventati famosi perché oggetto di una contesa con l’Ucraina che li chiedeva a gran voce per la mai avvenuta controffensiva. Il piano di acquisto italiano presentato nell’estate del 2023 dalla sottosegretaria alla Difesa, Isabella Rauti, per 150 carri dalla Germania prevedeva un costo stimato tra i 4 e i 6 miliardi di euro. Volendo prendere in considerazione la somma minima stimata, ossia 4 miliardi, si otterrebbe una spesa da oltre 26 milioni di euro per un singolo mezzo. Con 1,5 miliardi, dunque, l’Ue potrebbe finanziare l’acquisto di appena 58 carri Leopard 2.
Cifra, quella messa a disposizione dall’Ue, che appare più impressionante, in senso negativo, se rapportata ai costi di mezzi tecnologicamente più avanzati come i caccia F-35. Se si tiene conto dei costi, intorno agli 80 milioni, ecco che gli 1,5 miliardi Ue sarebbero sufficienti ad acquistarne appena 19.
Rete Italiana Pace e Disarmo: “Cifra bassa, sono sussidi all’industria delle armi”
Su questo si focalizza il commento di Rete Italiana Pace e Disarmo che sottolinea come cifre così irrisorie in un settore abituato a ben altri importi siano motivabili solo come l’ultimo favore al settore dei produttori di armi. “Certamente siamo contenti che, per ora, non siano stati stanziati i 100 miliardi di eurobond ipotizzati nei giorni scorsi – dice a Ilfattoquotidiano.it il coordinatore Francesco Vignarca – Di certo 1,5 miliardi per programmi di armamento sono soldi sprecati, che non riusciranno a garantire alcun tipo di sicurezza all’Europa, ma l’esiguità della cifra rispetto alle promesse è significativa. E dimostra come non ci sia una seria volontà di ipotizzare una politica estera e di difesa comune, ma solo il tentativo di favorire i soliti interessi armati“.
Accuse che Vignarca motiva citando il recente report della rete europea Enaat, From war Lobby to war economy, nel quale sono stati ricostruiti 536 incontri tra i rappresentanti delle principali aziende del settore europee e membri della Commissione tra il 2014 e il 2023 e 175 meeting con eurodeputati tra il 2019 e il 2023. “Le pressioni della lobby dell’industria militare anche sulla Commissione Ue sono continue e rilevanti – conclude Vignarca – Non è un caso che, pur continuando a usare la retorica di un ‘riarmo necessario’, visto il contesto internazionale, ciò che si è visto negli ultimi anni sono solo provvedimenti scollegati e che hanno fallito anche nei loro obiettivi prettamente militari. Noi riteniamo che la sicurezza dell’Europa si costruisca con scelte diverse che favoriscano la Pace e il miglioramento delle condizioni dei cittadini, ma se si vuole affrontare il tema dell’Esercito unico occorrono ragionamenti e dibattiti seri e non sussidi all’industria delle armi“.
L’entusiasmo della Ue
Nonostante ciò, i vertici europei accolgono il piano molto positivamente, a cominciare da Ursula von der Leyen, colei che lo aveva anticipato, che su X scrive: “Oggi definiamo la nostra visione per la preparazione alla difesa con la strategia industriale di difesa dell’Europa. Sosterrà i Paesi membri non solo a spendere di più, ma anche meglio, insieme e in modo europeo. E collegherà il know-how dell’Ucraina con la nostra industria della difesa per facilitare l’innovazione“. L’Alto rappresentante per la Politica estera, Josep Borrell, usa lo spettro della Russia per giustificare la mossa di Palazzo Berlaymont: “L’Europa è ancora in pericolo, la guerra è ai nostri confini ed è una guerra che non sembra finire presto ed è per questo che dobbiamo rafforzare la nostra capacità di produzione, passando da una modalità di emergenza a una visione di medio e lungo periodo per sostenere l’Ucraina”. E il primo avamposto è proprio l’Ucraina che, ad oggi, ha bisogno di circa 2,5 milioni di munizioni all’anno, mentre l’Ue sarà in grado di produrne poco più di 1 milione: “Se vogliamo continuare a sostenere l’Ucraina dobbiamo aumentare la nostra capacità in tal senso – ha aggiunto Borrell – Abbiamo sostenuto l’Ucraina prendendo ciò che già abbiamo nelle nostre scorte, producendo di più. L’Ucraina oggi ha bisogno di 200mila munizioni al mese da 155 millimetri. Ovvero 2,5 milioni all’anno. Se vogliamo sostenere l’Ucraina, dobbiamo essere in grado di farlo. Le persone non combattono con le banconote. Le banconote sono utili per comprare armi, ma dobbiamo farlo. È necessario convertire la capacità finanziaria in capacità industriale per avere forniture. Quindi tutto ciò che aumenta la nostra capacità di difesa è valido per l’Ucraina dato che ci impegniamo a sostenere l’Ucraina con le nostre capacità”.
Progetti che necessitano di investimenti ben maggiori di quelli messi sul tavolo ad oggi dall’Ue e che ricadranno, quindi, sulle spalle dei singoli Stati. Resta da capire se quest’ultimi siano disposti a sborsare altri miliardi per aumentare e sviluppare le proprie capacità produttive e d’acquisto.