Giuseppe Conte come Matteo Salvini? Per certi aspetti sembrerebbe proprio di sì. Anche il leader dei Cinque Stelle rischia di andare a incagliarsi su proposte tanto desiderabili quanto del tutto irrealizzabili.
Al leader, oramai in disgrazia, della Lega è toccata questa sorte con la sua vana battaglia contro la legge Fornero. E dunque è andato a sbattere malamente sul tema delle pensioni. Dopo un decennio di accanimento politico non solo la riforma Fornero è più solida che mai, ma il bellicismo sistematico di Salvini lo sta portando a clamorosi insuccessi elettorali. Se avesse, su questo punto, sposato la prudente linea Maroni, quella del posticipo pensionistico e non dell’anticipo, forse l’esito finale sarebbe stato meno infausto. Ma al Don Chisciotte padano le battaglie non mancano, ultima in ordine di tempo quella sugli autovelox. Anche se su questo punto potrebbe avere una qualche ragione nei confronti di certi sindaci “pazzi”.
Il leader dei Cinque Stelle è entrato a gamba tesa sul tema del salario con la recente proposta, stile Salvini, della settimana corta a parità di salario. Più che di settimana corta, direi cortissima perché l’idea è quella di portare la settimana lavorativa a 32 ore. Nelle dichiarazioni di Conte questa settimana cortissima aumenterebbe la soddisfazione dei lavoratori e anche la loro produttività. Pare che ci siano alcune esperienze all’estero che vanno in questa direzione, anche se su piccola scala.
La politica farebbe la sua parte con una riduzione dei contributi previdenziali pari al 30%, riduzione che dovrebbe compensare in parte i maggiori oneri per l’impresa. Per evitare effetti a sorpresa sulla finanza pubblica, come quelli del super bonus fiscale, l’onere massimo per lo Stato è fissato in 250 milioni annui. A spanne, una misura del genere potrebbe interessare circa 100.000 lavoratori dipendenti su 16 milioni. Quindi siamo ancora nel recinto delle micro riforme corporative con pochi effetti su scala nazionale.
Anche qui però c’è poco di nuovo. Ad onor del vero è stato il governo Prodi nel lontanissimo, politicamente parlando, marzo 2018 a far approvare dal Consiglio dei ministri un disegno di legge sulla riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore, sul modello francese nel frattempo accantonato anche in Francia. Anche Prodi prevedeva un meccanismo di riduzione dei contributi per le imprese aderenti e un aumento per le ore eccedenti le 35. Allora i sindacati erano scettici, mentre Confindustria era contraria. Ora la proposta Prodi ritorna riveduta e ampiamente corretta in senso populista.
Allora intervenne sul tema anche il filosofo Cacciari definendo l’accordo una stupidaggine totale. A quel tempo Prodi doveva accontentare in qualche modo Bertinotti che comunque ne provocò la caduta. Di questo disegno di legge si sono perse poi le tracce e la questione è stata del tutto accantonata.
È il momento di riprenderla ora? Sicuramente no. Se l’idea è quella di recuperare alle forze progressiste quella parte consistente di lavoratori dipendenti che diserta le urne, la proposta non mi appare idonea. Il tema che oggi sta a cuore ai lavoratori dipendenti non è tanto la riduzione dell’orario di lavoro, ma piuttosto quello della difesa del salario. Non si vuole lavorare di meno, ma piuttosto guadagnare di più per recuperare almeno i danni da inflazione. Ma allora si dovrebbe guardare in altre direzioni. Per esempio, con un’inflazione a due cifre, i rinnovi contrattuali a tre anni sono un indebito favore agli imprenditori i cui profitti aumentano istantaneamente.
L’inflazione da salari degli anni Settanta non esiste più nel contesto economico creato dalla globalizzazione e dalla rivoluzione tecnologica. Negli Usa, dove esiste una contrattazione continua, l’inflazione bellica sta scendendo anche se i salari sono saliti. Una specie di mistero per chi è educato alla teoria ortodossa che addossa sempre la colpa del perdurare dell’inflazione alle richieste di aumenti salariali. I lavoratori oggi giocano in difesa, e non in attacco. Su queste questioni occorrerebbe una proposta concreta dei progressisti, senza ripescare certe soluzione anacronistiche del passato.
L’ingenua, economicamente parlando, proposta dei Cinque Stelle di portare per qualche migliaio di lavoratori la settimana lavorativa a 32 ore è già superata dalla storia. È sicuro che la settimana lavorativa nel tempo scenderà. Si tratta di una tendenza storica irreversibile. Ma i tempi non li può dettare la politica, anche perché non ci sono le risorse. Questa micro proposta dal sapore populista non serve al fronte progressista per ritornare a dialogare con quella parte della classe operaia persa per strada. Per ottenere questo risultato basterebbe richiedere e ottenere le cose normali: cioè aumentare i salari quando sale l’inflazione. La destra vuole aumentare i salari tagliando le pensioni future, cioè riducendo i contributi previdenziali a carico dei lavoratori. Ma questa è una strada miope e poco percorribile dato lo stato della finanza pubblica.
Occorre cominciare ad aggredire i profitti che stanno cadendo come una manna dal cielo sulle imprese grazie all’inflazione e ai salari fermi. Questi profitti speculativi non sono nemmeno utili all’economia perché vanno ad ingrossare una finanza sempre più tossica. È difficile spiegare diversamente come la borsa nel 2023 sia aumentata del 30% con un’economia ferma. Chi aveva i soldi per comprare golosamente i titoli azionari? Non certo il popolo del lavoro dipendente falcidiato dall’inflazione.
Spero che il fronte progressista abbandoni velocemente questo tipo di proposte sul salario che più che populiste sono autolesioniste, cioè utopiche nel senso peggiore del termine. Proposte irrealizzabili e che non incidono minimamente sullo status quo. Invece chiedere anche sul versante politico adeguati aumenti salariali si può, anzi si deve per far crescere l’economia.