Il 6 marzo il governo ha incontrato i sindacati di polizia. Incontro richiesto a gran voce proprio dai sindacati – che hanno continuato a denunciare di essere vittime di un crescente odio – e che, all’ordine del giorno, avrebbe dovuto avere il rinnovo del contratto nazionale delle forze di polizia, scaduto da ormai 800 giorni. L’importanza del momento per il governo, al centro di polemiche incentrate sulla gestione dell’ordine pubblico, dopo le violenze della polizia a Napoli, Bologna, Torino, Pisa, Firenze e Catania, era già sottolineata dalle presenze dei “big”: Meloni, il ministro degli Interni Piantedosi, quello degli Esteri Tajani, quello dell’Economia Giorgetti e il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Mantovano.
Giorgia Meloni non ha tardato nell’esprimere solidarietà alle forze dell’ordine, vittime – a suo dire – “di una ingiusta e sistematica campagna di denigrazione”. Il vittimismo, tratto tipico dell’ultradestra, si rivela anche in quest’occasione. “Vittime di una campagna di denigrazione” non sono gli studenti, accusati di propositi antisemiti (dalla versione secondo cui si sono meritati le manganellate perché rei di voler raggiungere la sinagoga di Pisa), ma i poliziotti che coi loro manganelli hanno spedito in ospedale diversi minorenni.
L’aspetto più interessante dell’incontro non sta tanto nel posizionamento politico – scontato – di Meloni & Co., quanto nel merito delle proposte avanzate al tavolo da parte dei sindacati di polizia e che, sempre stando alle parole di Meloni, “il governo adesso valuterà”.
Bodycam sulle divise di tutti gli agenti, droni per sorvegliare i cortei, aumenti delle pene per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, arresti obbligatori in flagranza per chi viola “zone rosse” decise dalle autorità e il divieto di poter tornare a scendere in piazza a manifestare per i “violenti”. Oltre che indennità speciali per i questori e il pagamento regolare degli straordinari. Esclusa – of course – l’introduzione di codici identificativi per gli agenti, misura già presente in numerosi ordinamenti europei ma che qui l’ultradestra, di governo e non, teme come la peste.
In sintesi: più pene, più carcere, più restrizioni alla libertà di manifestare.
Misure che potrebbero essere introdotte nei prossimi mesi, magari sotto forma di emendamenti ai tre provvedimenti sicurezza già al vaglio del Parlamento italiano da novembre 2023. E che potrebbero vedere la luce giusto in tempo per il G7 che avrà luogo il 14 e 15 giugno in Puglia. Un orizzonte temporale che emerge dalle parole della stessa Meloni: “C’è un clima che non mi piace e mi preoccupa nell’anno del G7: vedo toni che mi ricordano anni molto difficili per la nostra nazione”. Ricordando quanto successo a Genova nel luglio 2001, in occasione del G8, bisogna ammettere che c’è in effetti un clima che preoccupa. Che però non ha nulla a che fare col denigrare le forze dell’ordine, ma con la restrizione degli spazi democratici, il rafforzamento dei dispositivi repressivi, in alcuni casi preventivi.
Tra le misure proposte al governo dai sindacati di polizia ce n’è una in particolare che procura allarme. È quella che sta passando sotto il nome di “Daspo per manifestanti”. Il Daspo è una misura amministrativa inizialmente applicata ai tifosi negli stadi. Tanto che l’acronimo Daspo sta per “Divieto di Accedere alle manifestazioni Sportive”. La norma esiste dal 1989 (legge n. 401). Giustificata sulla base di mettere un argine alla violenza negli stadi, ha visto un’estensione del suo campo di applicazione con la legge 201 del 2005. Il Daspo viene disposto da un’autorità di pubblica sicurezza, il Questore – non dunque da un giudice – e comporta il divieto temporaneo di accedere a manifestazioni sportive.
All’epoca della sua introduzione, godette di unanime consenso. L’“ultras” era un soggetto facile da qualificare come “violento” e “pericoloso”, bisognoso di un “addomesticamento” da parte della legge e dell’azione degli apparati repressivi dello Stato. A nulla valse la parola di chi riteneva che si sarebbe cominciato dagli ultras ma non ci si sarebbe fermati agli stadi.
Previsione puntualmente avveratasi nel 2017, quando – governo Gentiloni – fu approvato il decreto legislativo 14/17, meglio noto come “Decreto Minniti”, all’epoca ministro degli Interni. La norma prevedeva l’introduzione del “Daspo urbano”. A difesa della “sicurezza urbana”, intesa come “tutela del decoro di particolari luoghi”, il sindaco può comminare multe e il Questore un divieto di accesso a determinate zone a persone considerate un pericolo per la sicurezza pubblica. Chi sono i soggetti che attentano al “decoro urbano”? Ubriachi, parcheggiatori abusivi, mendicanti, senza tetto o chi compie atti contrari alla pubblica decenza. Erano questi i pericoli urbani, anche per i “democratici” di casa nostra.
Sulla base di questo impianto, oggi il governo Meloni può essere tentato di introdurre una nuova estensione del raggio di applicazione del Daspo, andando a colpire direttamente il diritto di manifestare, garantito dalla Costituzione antifascista. Dimostrazione ulteriore che se la “sinistra” copia le destre, non è che funziona da argine. Anzi, spiana la strada e permette loro di affondare come il coltello nel burro.
I provvedimenti del governo Meloni – quelli già in vigore (Decreto anti-rave, Decreto Cutro, Decreto Caivano, norme anti “eco-vandali”) e quelli in discussione (possibilità di vietare le manifestazioni anti-Israele, disegni di legge “sicurezza”, ecc.) non rispondono solo a una matrice storico-culturale. Non sono, cioè, frutto esclusivo dell’impianto culturale su cui da sempre si fonda l’ultradestra, il riflesso pavloviano dell’“ordine e disciplina” (per le classi popolari, chiaramente, perché per quelle dominanti si eliminano lacci e lacciuoli affinché siano libere di agire).
Sono piuttosto dovute alla analisi della congiuntura e dei possibili scenari futuri. Il governo Meloni, infatti, dietro l’apparente forza del consenso elettorale, nasconde un’immensa fragilità. Sa perfettamente che il perpetuarsi di politiche liberiste (altro che “destra sociale”), l’aumento del tasso di austerità – cui pure ci si è prostrati con l’accettazione del nuovo patto di stabilità, produce povertà, marginalizzazione, diseguaglianze. Contraddizioni che si andranno ad acutizzare perché, con Ucraina e Palestina come fronti principali, bisogna accelerare sul piano dell’economia di guerra.
Liberismo + guerra, questo è il quadro nel quale si muove, complice, il governo. O lo si affronta con una trasformazione radicale dei presupposti dell’azione politica, cioè con politiche radicalmente redistributive e il rifiuto della logica e dello stato di guerra, o col manganello. Il governo Meloni ha già scelto la sua strada. L’elemento creativo di chi si oppone a questa china non sta tanto nelle parole, quanto nella pratica. Le piazze piene sono il miglior antidoto possibile a “destinazione autoritarismo”, che sembra il titolo del programma di Meloni & Co..