La frustrazione della Casa Bianca per l’indisponibilità del governo israeliano a valutare le richieste de-escalation dell’offensiva militare su Gaza potrebbe tradursi in uno stop agli invii di armi. Lo scrive David Ignatius sul Washington Post di giovedì. Allo stato, la minaccia resta solo una forma di pressione diplomatica: l’amministrazione, ma l’affermato editorialista americano segnala che il semplice fatto che a Washington se ne parli è il segno di una cesura inedita che si è scavata tra Tel Aviv e il suo alleato più solido a causa della guerra scatenata dal massacro del 7 ottobre. “Israele deve capire che il livello di frustrazione dell’amministrazione Biden per la cattiva gestione della crisi umanitaria a Gaza ha raggiunto un limite”, ha dichiarato l’ex ambasciatore usa in Israele Martin Indyk.

La preoccupazione princiaple è per le conseguenze oggettivamente disastrose che potrebbe avere l’estensione delle operazioni dell’Idf su Rafah, città all’estremo sud della Striscia dove sono ammassati da mesi, in condizioni precarie e con scarso accesso a cibo e medicinali, circa 1,5 milioni di palestinesi sfollati durante il conflitto. Che questo sia un problema serio agli occhi dell’amministrazione Biden lo avevano già chiarito la vicepresidente Usa Kamala Harris e il consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan nei loro colloqui con Benny Gantz lunedì, durante la visita a Washington dell’ex generale e ministro israeliano centrista, considerato un credibile sostituto di Netanyahu come primo ministro. Contemporaneamente, lo stesso Joe Biden ha più volte fatto filtrare sulla stampa americana il suo “disaccordo” rispetto alle scelte di Netanyahu e l’auspicio che Tel Aviv possa valutare un cessate il fuoco temporaneo.

Il motivo è anche politico, per Biden: sostenere la linea di Netanyahu ha un costo politico troppo alto per un presidente che ormai nel pieno della competizione elettorale con Donald Trump. L’ala sinistra del partito democratico ha già aperto uno scontro con Biden su questo punto, pur continuando a sostenerlo, mentre ha cominciato a prendere peso il dissenso di una parte dell’elettorato dem (quella musulmana e quella più liberal) per quella che è considerata una linea troppo morbida con Israele.

Ma intanto gli invii di armi continuano in sordina- Al di là delle mosse diplomatiche, tuttavia, sul piano concreto resta che gli Stati Uniti continuano a inviare armi a Tel Aviv. Lo stesso Washington Post e altri media anglosassoni, citando un report classificato prodotto da funzionari Usa per il Congresso, giovedì hanno contato almeno 100 pacchetti di vendita di armi, dall’inizio della guerra il 7 ottobre a oggi. Si tratta di migliaia di munizioni a guida di precisione, bombe di piccolo diametro, bunker buster, armi leggere e altri “dispositivi letali”. Queste consegne, tecnicamente chiamate foreign military sales sarebbero state fatte in sordina, al di fuori del controllo del Congresso americano e quindi senza alcun dibattito pubblico, perché gli importi delle 100 transazioni sarebbero rimasti al di sotto della soglia che fa scattare l’obbligo di passare per un’approvazione nel Congresso. In sede di Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno finora messo il veto sulle risoluzioni che chiedevano il cessate il fuoco a Gaza o chiedevano a Tel Aviv di abbandonare il piano di offensiva su Rafah.

Dall’inizio del conflitto sono state rese pubbliche solo due vendite militari estere approvate a Israele: 106 milioni di dollari di munizioni per carri armati e 147,5 milioni di dollari di componenti necessari per produrre proiettili da 155 mm. In entrambi i casi l’amministrazione Biden era stata accusato di aver aggirato il Congresso per approvare i pacchetti invocando le condizioni di emergenza.

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