"A passo lento nella realtà" (edizioni Mimesis) verrà presentato sabato 9 marzo alle ore 15.30 a Milano, in occasione del BookPride
“L’informazione non può essere neutrale. Dev’essere di parte. Deve essere la tua parte personale in un discorso a cui devono rispondere gli altri. Se vogliono”. Negli anni Sessanta le scienze sociali hanno iniziato a prendere coscienza del fatto che l’arte e i mezzi d’informazione contribuiscono a definire una certa percezione del mondo. E così chi si occupa di narrazioni ha iniziato a realizzare, a sua volta, che ciò che offre è sempre una lettura parziale, nel suo senso etimologico: chi racconta una storia sceglie una parte, offre la sua prospettiva. Non significa essere faziosi: la stessa selezione dei temi è una scelta interpretativa del mondo. E può essere un atto politico. Per questo il fotoreporter Uliano Lucas parla della necessità che l’informazione non sia “neutrale” e il suo lavoro è una prova su pellicola di questa consapevolezza: nei suoi reportage, nei suoi scatti, Lucas non si è mai sottratto alla responsabilità di star offrendo una visione del mondo. Dalle guerre di liberazione alle trasformazioni del mondo del lavoro, dalle realtà africane alle contestazioni giovanili (prima, dopo e durante il ’68), dagli ospedali psichiatrici agli altri luoghi di detenzione, Lucas ha raccontato il suo tempo rendendo visibili anche gli ultimi, cosciente “che i poveri, gli ultimi, erano stati rappresentati poco e male, che le immagini erano sempre servite per perpetuare e alimentare una certa visione del mondo, che tavole d’altare e ritratti di dogi e re erano stati strumenti ideologici capaci di presentare come un ordine naturale quello che invece era un sistema culturale”. Nel volume A passo lento nella realtà – scritto da Lucas con Tatiana Agliani e edito da Mimesis – il fotoreporter ripercorre incontri, scelte e ricordi della sua professione, offrendo allo stesso tempo uno spaccato della società in cui, fotocamera alla mano, si è mosso “a passo lento”.
Una valigia nella mano sinistra, una scatola di cartone sulla spalla destra. Nello sfondo, il “Pirellone”, come viene chiamato confidenzialmente dai milanesi. E dietro il fotografo, fuori dall’obiettivo, la Stazione Centrale. La foto è scattata nell’angolo sud-ovest di piazza Duca d’Aosta. È la piazza dove spesso avviene il primo contatto con la città, per chi arriva nel capoluogo lombardo in treno, e sicuramente era il salotto meneghino che accoglieva chi affrontava il cosiddetto “viaggio della speranza”: i migranti che tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta giungevano in massa nella “città dell’Industria” con il treno del Sud, una valigia di cartone e la speranza di un posto in fabbrica. Al centro della foto, scattata dal basso verso l’alto per far rientrare nell’inquadratura la maestosità dell’edificio Pirelli, c’è un uomo. È un immigrato sardo che pochi minuti prima è sceso dal treno, si è tolto di tasca un foglietto spiegazzato con l’indirizzo del luogo dove recarsi, all’estrema periferia della città, e un po’ spaesato si è guardato intorno incontrando lo sguardo di Lucas. Il fotoreporter lo aiuta, cammina con lui, gli dà alcune indicazioni sulla sua città. Poi lo ritrae in una foto destinata a diventare l’emblema della collisione tra il mondo operaio e contadino e il futuro industriale della “città più città d’Italia“, “l’immagine simbolo di un trauma antropologico, di uno scontro tra due mondi: il grattacielo Pirelli, costruito da Gio Ponti e Pier Luigi Nervi, emblema del boom economico degli anni Sessanta e un emigrante del Sud, figlio di un’Italia contadina. Due storie che si intrecciano, l’opulenza e chi l’ha costruita”.
“La fabbrica era come un polmone, si riempiva la mattina e si svuotava la sera. C’era un mondo dentro e un mondo fuori”. Lucas racconta questi mondi seguendo gli operai sui mezzi pubblici, fino alle cascine dell’hinterland o nei quartieri dormitorio in cui abitavano, seguendoli nelle assemblee di periferia, nelle scuole dei figli, negli ospizi dei vecchi. Nelle loro stesse case. Gli scatti che lo testimoniano sono delicati e mai invadenti o morbosi: sembra che il fotografo non ci sia, sembra che Lucas sia riuscito a ridurre a minimo l’impatto condizionante del suo sguardo antropologico. Il suo obiettivo è indagare la realtà, comprenderla, andare a fondo delle cose. Come spiega lui stesso in A passo lento nella realtà, Lucas usa la macchina fotografica come uno scandaglio utile a comprendere il reale, e non solo a raccontarlo: “Ho usato la macchina fotografica per indagare e capire le sfaccettate realtà che mi circondavano e che mi incuriosivano”. E con questo proponimento negli anni racconta la povertà e precarietà della vita, “gli operai che fendevano la scighera (nebbia in milanese, ndr) in bicicletta con i giornali sotto la giacca per ripararsi dal freddo, verso le fabbrichette del Corvetto”, e quella Milano moderna e ammodernata “che usciva dalle ruspe e dai bulldozer e avanzava verso una vita di omologazione, di desideri indotti, ma anche di nuove libertà e possibilità”.
Il volume, una sorta di autobiografica professionale per foto e parole, ripercorre anche l’esperienza dei reportage di guerra e delle lotte per la democrazia e la libertà. La Rivoluzione dei Garofani in Portogallo, le guerre di liberazione in Eritrea e Angola, fino alla guerra fratricida nella vicina e dimenticata ex Jugoslavia, dove “la colta Europa ha perso con Sarajevo le sue prerogative morali”. In tutti questi teatri bellici Lucas rifugge il rischio della sovraesposizione dell’orrore, evita la prassi automatizzata di mostrare il dolore senza andare a fondo delle dinamiche complesse del momento storico che si vuole raccontare: “I cineoperatori e i fotografi avevano pronto il loro tour dell’orrore. Una giornata tutto compreso. Atterraggio, trasferimento sui blindati dell’Onu, visita negli ospedali. Rapidi scatti ai bambini ustionati o mutilati. Ritorno al blindato. Sosta nella piazza divelta da una granata. Ancora il blindato, via verso il cimitero nel campo sportivo, panoramica delle tombe, zumata sulle croci cristiane e ortodosse, sui simboli della mezzaluna e della stella di David. Corsa verso l’aeroporto e ritorno alla base in Germania. Ecco la Sarajevo per i telegiornali delle 20 diramati in tutta Europa”. Lucas vuole comprendere e far comprendere le ragioni per cui uomini e donne che avevano convissuto per decenni, che erano stati fino al giorno prima amici, fratelli, sposi, figli, riscoprivano d’improvviso le proprie radici etniche e religiose e un odio “atavico, insanabile”. Mostrandone le conseguenze anche in modi più obliqui e indiretti, come nella foto scattata nel 1992 in un ospizio di Mostar e contenuta nel ricco volume in uscita oggi 8 marzo: “In un ospizio a Mostar, tra i muri sporchi, le porte divelte, i materassi per terra, in mezzo a un forte odore di escrementi e urina, incrocio lo sguardo arreso, dalla tristezza senza fine, di una coppia”. Scegliere il soggetto, meditare sulla complessità del reale, offrire una prospettiva inedita. Ricordando quanto ancora sia necessaria una narrazione di questo tipo: “Proprio per queste ragioni, il bisogno del racconto fotografico, della fotografia nella sua funzione primaria di testimonianza, nel suo essere pencil of nature (la matita della natura, ndr), nella sua natura peculiare e unica di specchio dotato di memoria è sempre più stringente”.