Le donne si sentono in pericolo nello spazio pubblico. E molto di più rispetto agli uomini. La paura, troppo spesso, le spinge a rinunciare a un posto di lavoro in zone isolate o a cambiare le abitudini notturne. Le costringe a restare in casa. Nessuna novità: il fenomeno esiste da sempre, solo che ora c’è chi chiede di affrontarlo a livello di pianificazione urbana per dare risposte concrete. E provare a cambiare le cose. Lo fanno, ad esempio, le ricercatrici Florencia Andreola e Azzurra Muzzonigro: fondatrici dell’associazione Sex & the City, sono le autrici di “Libere, non coraggiose” (LetteraVentidue edizioni), ricerca condotta per l’Urban center di Milano. La proposta è molto concreta: cambiare le città, chiamando in causa direttamente amministrazioni e politica. Perché nessuno, né le donne né le minoranze di genere e alla fine neppure gli uomini, ne siano esclusi. Per farlo servono azioni mirate: gestire la notte, ascoltare le voci di chi vive i quartieri favorendo la partecipazione dal basso, cambiare gli spazi (dall’illuminazione alle fermate dei bus). Quello che “rende le città sicure sono i presidi spontanei, la presenza di persone”, sostengono le ricercatrici. “Per questo dobbiamo fare in modo che siano popolate sempre di più dalle donne, anche di notte”.
La paura che esclude – Il punto di partenza dell’analisi è la costruzione sociale della paura. “Dalla fine degli anni ’80 si è iniziato a parlare del fenomeno”, dice Andreola a ilfattoquotidiano.it. “Le donne hanno sempre avuto più paura degli uomini nello spazio pubblico, sebbene siano meno vittime di reati degli uomini. Hanno paura soprattutto di subire un’aggressione da parte degli sconosciuti, sebbene più dell’80% delle violenze sulle donne avvengano nella sfera domestica affettiva”. Una paura che si traduce spesso in isolamento e va affrontata. “Se ho paura, questo mi limita: mi impedisce di uscire di casa, di attraversare determinate aree della città, di accettare una proposta di lavoro di sera in un posto in cui non me la sento di andare. È una questione di diritto alla città”. E continua Muzzonigro: “Il problema è quando questa paura viene strumentalizzata e socializzata. E all’improvviso, a prescindere dai dati, sembra che la città sia in preda al crimine. Quando invece spesso il problema è tra le mura di casa”. Sposta l’attenzione per poi “giustificare politiche securitarie e razziste”, spiegano le ricercatrici, “e pure gentrificanti”. Il primo risultato è che le donne, nel dubbio, restino in casa. “Raccontarci come deboli fa in modo che venga mantenuto una sorta di status quo. Le donne sono sempre state legate allo spazio domestico dove svolgono un lavoro gratuito fondamentale. E la politica, ma anche implicitamente i nostri genitori, ci convicono che sia meglio se rimaniamo a casa”. Si vincola la donna allo spazio domestico, rivendicandolo come sicuro, e quella è la “trappola”: “Nel momento in cui non ci sono le donne fuori casa, effettivamente la città è più pericolosa perché manca un presidio spontaneo di mutuo supporto. Mentre la loro sola presenza renderebbe gli spazi più sicuri”.
Le soluzioni esistono, basta volerle – La sfida è capire come rendere le città luoghi che possano essere attraversati dalle donne. Gli esempi ci sono all’estero, ma non solo. In Italia, uno dei centri dove si sta iniziando a sperimentare è Bologna. “Qui stiamo facendo”, aggiunge ancora Muzzonigro, “un lavoro di analisi sulla nozione espansa di sicurezza che riguarda anche la dimensione abitativa e quella sanitaria. E poi c’è la vicesindaca Emily Clancy che ha proprio una delega alla notte e sta implementato varie politiche”. Come ad esempio, “i trasporti pubblici che vanno tutta la notte”. “Poi ha inserito nei luoghi legati alla movida la figura dello ‘street host’, ovvero una persona con la pettorina a cui ci si può rivolgere in caso di conflitti. Quindi non in un’ottica repressiva, ma conciliativa”. Un modo per avere maggiore controllo delle aree di affollamento in ore notturne, senza però inserire forze dell’ordine che potrebbero avere effetti controproducenti. “Quello che è interessante a Bologna”, continua Andreola, “è che ha messo al centro la pianificazione della notte. Che non è tanto un tempo di interruzione della vita, quanto piuttosto un tempo con una sua caratterizzazione e dignità. Noi abbiamo paura oggi di notte perché si dorme e si sta a casa, ma la notte esiste ed è già vissuta, anche da persone che lavorano. Non è solo un tempo buio e privo di servizi”. Una delle strade, molto praticate all’estero e ancora molto rare in Italia, è quella di favorire la partecipazione dal basso e chiedere a chi abita i quartieri come fare per rendere gli spazi più sicuri. “Bisogna studiare i quartieri e i loro flussi”, continuano le ricercatrici. Perché non esiste una ricetta univoca, ma aspetti diversi da affrontare a seconda delle zone. E solo chi le abita può dire quali. Uno dei punti fondamentali riguarda le luci: “Il processo partecipativo può intercettare specificità come i punti di illuminazione che non funzionano o che sono troppo bassi. Oppure troppo potenti e fanno sentire eccessivamente esposti”. Troppa luce su di te, ad esempio alle fermate dell’autobus, vuol dire illuminarti e farti sentire una preda: tutti ti vedono e tu non vedi gli altri. Poi c’è proprio la struttura delle vie: “Pensiamo a una strada come via Sammartini a Milano”, vicino alla stazione Centrale, “che ha su un lato un muro cieco che è lungo tutto un chilometro”. Questo non dà la sensazione di avere vie di fuga e aumenta la paura.
Tra le città modello, ci sono poi Vienna in Austria e Umeå in Svezia (circa 90mila abitanti). La prima si distingue per gli oltre 60 progetti per ripianificare la città. Un processo che hanno fatto insieme alle donne, coinvolgendo anche le ragazze. “Hanno ridisegnato parchi, attraversamenti pedonali, allargato marciapiedi e riattivato aree che magari erano completamente devitalizzate”. Spiega Muzzonigro: “Si chiama gender mainstreaming. Cioè lo sguardo di genere integrato in maniera strutturata trasversale dentro tutta l’amministrazione pubblica. Non un settore a se stante, ma trasversale. E quello per cui lavoriamo, anche se in Italia siamo molto lontani”. La svedese Umea, ad esempio, consultando la popolazione più giovane ha realizzato una piazza che, grazie alle panchine, all’illuminazione e ai colori, favorisce l’aggregazione. “Prima dicevano di non sapere cosa fare e per quello non frequentavano gli spazi del centro”, spiegano. Qui sono state riviste anche le fermate del bus: “Le hanno costruite con un design particolare che fornisce sedute singole dentro delle sorte di tubi che abbracciano la schiena proteggendo dalle intermperie, ma lasciando vedere le gambe. Così che tutti possano sapere se c’è qualcuno che aspetta”.
Anche Sex& the City sta promuovendo una sua proposta concreta: le camminate esplorative per le città. Spiega Muzzonigro: “Arrivano direttamente da Barcellona e nascevano come strumento di rivendicazione”, di riappropriazione degli spazi. “Nascono come momento di rabbia in risposta alle violenze. Noi usiamo quell’esperienza come strumento di pianificazione. Ovvero si crea un gruppo rappresentativo della composizione del quartiere e viene fatta una passeggiata insieme ad esponenti dell’amministrazione locale. Così, innanzitutto cambia la relazione con lo spazio e poi si crea un report con delle segnalazioni”. Una, sperimentale, è stata fatta nel quartiere Niguarda a Milano nel 2022 e l’obiettivo è quella di ripeterla in tutti i municipi.
Il caso Milano – Il capoluogo lombardo è uno dei luoghi su cui si concentra il lavoro di Sex & the City: città al centro dei dibattiti sul numero di furti e rapine, ma anche fortemente percepita come insicura. “Innanzitutto”, sostiene Andreoni, “negli ultimi cinque anni sono cambiate delle cose sostanziali. Cioè la città è diventata inaccessibile e le disparità economiche sono aumentate a dismisura. Questo ha portato a una maggiore esposizione della povertà. Sono aumentate le persone che dormono per strada, anche della classe media, e questi gruppi, di solito uomini, mettono a disagio”. Sono aspetti che influiscono sulla percezione della sicurezza. Su questo fronte i dati continuano a essere molto pochi e per questo, quelli raccolti, sono molto significativi. Lo ha fatto Step Up, progetto al quale hanno lavorato anche Andreola e Muzzonigro, presentato a febbraio scorso. L’indagine è stata fatta sulla base di numeri raccolti con questionario online, focus group in diverse zone e oltre 70mila segnalazioni arrivate tramite un’applicazione (Wher). Il risultato? Se di giorno si sentono al sicuro più del 91% degli uomini e più dell’81% delle donne, di notte la rilevazione cambia drasticamente: ben il 57 per cento delle donne dice di non sentirsi sicura a fronte di solo l’8,2 per cento degli uomini. Hanno anche chiesto alle donne quali sono gli interventi più urgenti per migliorare la situazione: per il 54,2% serve “un aumento di luoghi aggregativi aperti la notte”; il 28,1% chiede un miglioramento del livello di illuminazione pubblica; il 25,8% preferisce un rafforzamento del trasporto pubblico di notte. Chi deve agire e farlo in fretta sono le amministrazioni comunali. “In generale”, dicono le ricercatrici, “noi pensiamo che vada smontato l’immaginario di raccontare le donne come fragili. Fin da subito iniziano a dirti: dove vai, stai attenta, come ti vesti. Vivi nel panico che il tuo corpo non sia in grado di difenderti. Ed è sbagliato perché abbiamo corpi abili e possiamo fare a meno di un uomo che arriva e ci salva”. La tematica è cruciale, tanto quanto la prevenzione dei reati. Eppure non se ne parla ancora abbastanza. “La politica sta retrocedendo rispetto all’idea di una donna emancipata e non lavora per spingere le donne fuori di casa. E perché si sentano sicure nel farlo”. Uscire a qualsiasi ora del giorno o della notte non può essere un atto di coraggio, ma deve dipendere solo dal desiderio di ciascuna. Insomma, l’obiettivo è che le donne e le minoranze di genere siano “libere, non coraggiose”. E a beneficiarne saranno tutti i cittadini.
*Foto Equal Saree (Barcellona)