A poco meno di un mese dalla sentenza, sono state depositate le motivazioni dei giudici della Corte d’assise di Bologna che hanno condannato all’ergastolo Giovanni Padovani, l’uomo che il 23 agosto del 2022 uccise l’’ex fidanzata Alessandra Matteuzzi. I magistrati – che individuano nel movente in “un irresistibile desiderio di vendetta, uno tra i sentimenti più irragionevoli, eppure imperativi” – usano per definire la brutale aggressione mortale “omicidio d’onore” che fu abrogato nel 1981. Una definizione quindi che rischia di innescare una polemica sul processo a un imputato di femminicidio in cui la vittima fu massacrata anche usando una panchina “trasformata in un’arma micidiale”. Mentre individuano nella “insana gelosia dell’imputato… il movente del delitto di atti persecutori”. La vittima era stata perseguitata dall’uomo e lo aveva denunciato per stalking.
Durante la requisitoria la pm aveva elencato le vessazioni e i controlli ossessivi che Padovani metteva in atto nei confronti di Matteuzzi. Dall’obbligo di registrare video e inviarli ogni 10-15 minuti ovunque si trovasse, all’intrusione nei suoi social e telecamere di casa. L’uomo, dopo una perizia, è stato dichiarato capace di intendere e volere
Per i giudici “il proposito vendicativo” dell’imputato, è chiaro fin dai mesi precedenti all’omicidio. Quella sera di fine estate, infatti, l’ex calciatore mise in pratica “un vero e proprio agguato, preparato nelle sue linee essenziali di azione“. “Deve ritenersi acquisita la prova che la condotta omicidiaria non sia stata determinata da un mero moto d’impeto – scrive la Corte – ma sia maturata e si sia progressivamente radicata negli intenti dell’omicida, sia stata persino preannunciata nelle confidenze fatte a terzi e alla madre nelle annotazioni sul cellulare, e poi attuata secondo un piano predeterminato, comprensivo della scelta dell’arma da usare e del luogo in cui colpire”.
Nel processo è emerso “il carattere ossessivo-maniacale delle forme di controllo che l’imputato attuava nei confronti della compagna e come fosse stato spinto da una forza irresistibile, ingenerata da un sentimento di rancore e da un senso di frustrazione, a ritornare a Bologna per assassinarla”. L’imputato per i periti della Corte è perfettamente in grado di intendere e volere e in alcuni casi ha simulato comportamenti psicotici: in altre parole la sua è stata “una messa in scena”. I giudici hanno ritenuto infatti che “le bizzarrie comportamentali” di Padovani, “talora anche grossolanamente enfatizzate, seguite sovente da prese di posizione invece consapevoli e responsabili, soprattutto negli snodi decisivi del processo, le risultanze dei test, con risposte sbagliate anche alle domande più banali e infine l’asserzione di una tardiva insorgenza di sintomi psicotici, forniscano indicazioni che sembrano coniugarsi tra loro soltanto nella prospettiva di una intenzionale messa in scena dell’imputato“.
La sentenza merita una lettura approfondita, ma – dice l’avvocato Gabriele Bordoni, difensore di Giovanni Padovani – posso dire fin d’ora che sarà stimolante confrontarsi parola per parola, espressione per espressione e devolvere alla Corte di appello tutte le ragioni critiche avverse a questa decisione”. Durante la sua arringa il legale citò le motivazioni di una controversa sentenza in cui si faceva anche riferimento a “una tempesta emotiva” per tentare di far escludere le aggravanti. Stalking, vincolo del legame affettivo, motivi futili e abietti e premeditazione sono state tutte riconosciute.