Dopo giorni e notti di viaggio: ecco Rosarno, ancora 12 chilometri ed è casa. La strada è lunga, polverosa, e per giungere a Galatro Giuseppe taglia per sentieri di campagna. Arriva. “Gli alberi d’ulivo, con le foglie d’argento cullate dal vento, sembrano salutarlo col fruscio”, i familiari impazziscono di gioia. Da dove viene? Nola, Bolzano, Vienna, eccetera, un’odissea. In realtà viene dal lager XVII A, di Kaisersteinbruch (Austria), ed è il protagonista insieme ad altri di una resistenza silenziosa e dimenticata. È uno degli Internati Militari Italiani (IMI) ritornati a casa dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale.
A raccontare questa storia di dolore e resistenza è il figlio (Nicola Marazzita, Il coraggio dei tre no, ANEI), che l’ascoltò dal padre, una sera, quando – “mescolando cibo ed emozioni” – disse l’angoscia che si portava dentro. È che gli italiani prigionieri dei nazisti, dopo l’8 settembre, dissero dei “no” e furono trattati come traditori; poi, tornati in Patria, vennero umiliati come collaboratori dei tedeschi. Terribile destino.
La storia di Giuseppe Marazzita era iniziata bene col suo arrivo a Nola. Idealista e patriota, vide nella caserma “l’abbraccio caloroso di solidarietà tra compagni”. Poi tutto mutò: l’eccidio di Nola, la crudeltà dei tedeschi, la decimazione. “Fu allora che comprese come gli ideali di guerra instillati in caserma fossero fonte di dolore e morte” (p. 18). Approdò al realismo. Ma “la realtà, a volte, è così tragica da sembrare irreale” (Kafka). Giuseppe e i suoi compagni lo sperimentarono presto: catturati, ammassati sui treni merci, “trattati come bestie”; poi il lager, le baracche, l’orrore quotidiano, la fame, il freddo, la malattia. “Una non-vita, una non-morte: un’agonia” (p. 31). Ma gli IMI seppero dire dei coraggiosi “no”: rifiuto di combattere per i tedeschi e di aderire alla Repubblica di Salò. “Un atto di Resistenza” (p. 23). Ecco il punto: resistenza non fu solo quella del partigiano che combatté in montagna, ma anche quella del prigioniero di guerra che rifiutò di sparare sugli Alleati anglo-americani.
Non fu facile. Nessuno sapeva ancora come sarebbe finita la guerra, e la proposta di aderire alla Rsi era (nelle condizioni date) una terribile tentazione. Mi sembra di vederlo il prigioniero di guerra N. 136920, Marazzita (sporco, lacero, distrutto, affamato) mentre legge nel lager un volantino: “Vuoi abbracciare tua madre? Vuoi tornare alla tua famiglia? È facile. Aderisci alla Repubblica Sociale di Salò” (p. 34). Ecco: provate ad essere nell’inferno, a soffrire come un dannato, a desiderare il calore della famiglia. Provate a immaginarlo. E capirete cosa significò rispondere “no” all’idea di tornare a casa. Oltre la violenza fisica, ecco quella psicologica. Ma il prigioniero N. 136920 seppe resistere. Un atto eroico. E politico. Derivante, certo, dalla tradizione socialista di famiglia. Fu apprezzato? No. Finita la guerra, solo indifferenza. E a tratti il disprezzo: gli IMI sono stati collaborazionisti. “Non fare del bene se non hai la forza di sopportare l’ingratitudine”, lessi da qualche parte. È che gli operai tedeschi erano in guerra, e Hitler impose il lavoro coatto in fabbrica ai prigionieri italiani, “per sostituire la manodopera mancante” (54).
Collaborazionismo? Suvvia! Gli IMI avevano orgoglio da vendere. E sentimenti puri. E forse fu proprio questo che percepì Herta, la ragazza che Giuseppe incontrò a Vienna, di cui si innamorò (corrisposto); la ragazza “dagli occhi vivaci, quasi felini”, che vedeva sul cancelletto di casa, ogni giorno, andando al lavoro. Incontri, fotografie, pranzi a casa di lei. Herta, un amore in tempo di guerra. Poi la vita prese altri percorsi (pp. 61-68). Certo è che negli anni di prigionia gli IMI non tradirono la patria. Non furono codardi. E scoprirono l’antifascismo. Ha ragione l’autore del libro: mentre guardavo in tv una storia di guerra insieme a mio padre – dice – compresi che la sua vita “era molto più avvincente di qualsiasi film” (p. 44).
Ma la storia di Giuseppe, e di tutti gli IMI (la loro verità), venne per decenni negata. E negati furono a molti i diritti, la concessione (finanche) del sussidio ai reduci (p. 98). Una vergona. Poi arrivò Carlo Azeglio Ciampi, un Presidente illuminato, e riconobbe l’eroica Resistenza dei prigionieri italiani nei campi tedeschi (pp. 103-113). Dopo di lui si accodarono altri. Poi tutti. Arrivarono i riconoscimenti. Le medaglie. Ma Giuseppe Marazzita non c’era più, ci aveva lasciati nel ‘76. Era stanco. “Nelle rughe del suo viso c’era la mappa di un viaggio attraverso gli anni” che Nicola conobbe dai racconti, e noi oggi dal suo libro. Difficile dimenticarlo. Un testo lucido e commovente. Leggerlo è stata un’emozione.