9 marzo 2020, scattava il lockdown nazionale. Il 21 febbraio 2020 era stato individuato il primo caso italiano di infezione da Covid-19. Erano giorni tremendi, di paura e sgomento. Ma anche di confusione, errori e di inconfessabili pressioni. Non è casuale che fino ad ora il triste anniversario sia passato nel silenzio di quasi tutti i media mainstream. Proprio per questo è bene ricordare cosa accadde.

Non dimentichiamoci che…

28 febbraio 2020: i positivi in Lombardia erano già 531 dei quali 103 nella zona bergamasca. L’allora assessore al Welfare, Giulio Gallera, dichiarava, riferendosi ad Alzano: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno nell’ordinanza che abbiamo preso”.

2 marzo: i contagi a Bergamo in 24 ore sono quasi raddoppiati da 100 a 209, Gallera annuncia: “Stiamo lavorando intensamente… per rafforzare il personale negli ospedali e coinvolgere anche i soggetti privati che da oggi entreranno nella cabina di regia per ampliare la rete dei posti in terapia intensiva, compresa al gestione dei casi ordinari”. Ci sono voluti undici giorni dal primo caso a Codogno, prima che regione Lombardia decidesse di coinvolgere, nel contrasto alla pandemia, le strutture private convenzionate con Il Servizio Sanitario Nazionale, SSN.

Il 2 marzo, secondo un’inchiesta della giornalista Francesca Nava pubblicata in The Post Internazionale, l’Istituto Superiore di Sanità aveva richiesto la creazione della zona rossa a Nembro e Alzano. Non se ne fece nulla, il contagio continuò a diffondersi e il numero dei morti ad aumentare. Pochi giorni prima, il 27 febbraio, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, pubblicava sui suoi profili social, il video “Milano non si ferma”. Il giorno prima Giorgio Gori, sindaco di Bergamo postava sulla sua pagina Facebook l’appello: “Bergamo non ti fermare!”.

Rimuovere quello che è accaduto è pericoloso

Il desiderio di rimuovere quanto avvenuto è un fenomeno comprensibile per una collettività che tanto ha sofferto, ma non possiamo né dobbiamo dimenticare cosa è accaduto e le responsabilità di chi ha compiuto determinate scelte con le loro tragiche conseguenze. Non possiamo rischiare che la storia si ripeta. Abbiamo pagato un prezzo altissimo, siamo tra le prime dieci nazioni per decessi Covid. Non dimentichiamoci i medici nei dipartimenti d’emergenza costretti a scegliere, chi curare e chi abbandonare al proprio destino. Abbiamo giurato a noi stessi che simili situazioni non avrebbero dovuto ripetersi. Un’occasione persa.

I soldi in arrivo con il Pnrr avrebbero dovuto costituire il volano per rilanciare il Servizio sanitario nazionale. Ma quei fondi sono stati indirizzati altrove, utilizzati perfino per grandi opere destinate a peggiorare ulteriormente la già precaria situazione ambientale; alla sanità restano solo le briciole. Dei 191 miliardi del Pnrr circa 15, pari all’8% del totale, erano destinati alla sanità, poi il governo Meloni ha cancellato 414 case e 96 ospedali di comunità e i fondi sono stati tagliati ulteriormente. I soldi del Pnrr sono destinati quasi solo a costruire edifici e ad acquistare strumenti diagnostici, non ad assumere personale; molte delle strutture costruite verranno quindi affidate in gestione al privato. Non sono stati aumentati in modo generalizzato gli stipendi di medici e infermieri ed è quindi proseguita la fuga all’estero che in vent’anni ha coinvolto 180.000 operatori sanitari. Le liste d’attesa sono infinite, i pronti soccorsi sono sempre più simili ai gironi danteschi nonostante lo sforzo di chi ci lavora, i medici di Medicina generale soffocano nella burocrazia.

Nel frattempo, aumentano i farmaci diventati introvabili, che lasciano nella solitudine e nella disperazione i malati. I servizi territoriali vengono tagliati, i consultori ridotti, decine di migliaia di adolescenti e di bambini, che dopo quanto sofferto durante la pandemia avrebbero necessità di un sostegno psicologico, sono abbandonati a sé stessi con CPS e UONPIA, Unità Operative di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, prive di personale e di risorse economiche.

Non c’è dubbio che siamo messi peggio che nel 2019, in epoca prepandemica. Se dovesse arrivare una nuova pandemia, oggi avremmo meno strumenti.

Una grande missione

Chi ci governa procede coniugando la furia devastatrice verso il Ssn, le cui spoglie vengono consegnate al privato, con un’irresponsabilità autodistruttiva ormai fuori da ogni controllo. Scrive Lula, presidente del Brasile: “Il futuro post pandemia non è garantito per nessuno. È oggetto di conflitto… Coloro che, come noi, cercano da tempo di costruire un mondo di opportunità uguali per tutti, in cui la vita, i diritti umani e l’ambiente siano valori reali e impossibili da spezzare, hanno di fronte una grande missione” (“Senza respiro Un’inchiesta indipendente sulla pandemia Coronavirus in Lombardia, Italia, Europa. Come ripensare un modello di sanità pubblica” Vittorio Agnoletto, ed. Altreconomia 2020 pag. 9-10).

La lotta per il diritto universale alla salute è un obiettivo prioritario per tutti coloro che si oppongono allo stato delle cose presenti e che vogliono ancora immaginare un futuro possibile.

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