Ci sarà sicuramente un vasto dibattito di palazzo sul risultato delle elezioni regionali abruzzesi.
Nel centrosinistra funziona di più il campo largo o quello ristretto? Nel centrodestra vince più il centro o la destra? In attesa della soluzione di questi appassionanti dilemmi, mi pare che si potrebbe prendere atto di un dato oramai confermato più volte. Nella metà degli italiani che va a votare, la destra oramai è maggioranza. In Italia e in molti paesi europei, così come negli Stati Uniti, la partecipazione al voto si riduce sempre di più.
Nel nostro paese durante la vituperata Prima Repubblica la partecipazione alle elezioni sfiorava il 90% della popolazione; tolti i malati e coloro che erano impossibilitati perché lontani dal seggio, quasi tutte e tutti andavano a votare. Era il suffragio universale, una conquista politica e sociale frutto delle lotte iniziate a fine Ottocento dal movimento operaio, che si batteva contro l’esclusione dal voto di operai e poveri, e dal femminismo, che chiedeva il diritto al voto anche per le donne.
Oggi il suffragio universale formalmente non viene più negato, ma sta scomparendo nei fatti, secondo precise linee sociali e di classe. I poveri, gli emarginati e soprattutto gli operai non vanno più a votare. Al contrario, più il reddito e il benessere sale, più è forte la partecipazione al voto. La realtà è che stiamo tornando alla democrazia degli ottimati e dei borghesi, cioè alla negazione della democrazia di massa voluta dalla nostra Costituzione. I sistemi elettorali maggioritari, con la selezione preventiva del voto a favore di chi può vincere, la fine dei partiti come strumento di partecipazione e mobilitazione, il dominio dei soldi e dei mass media hanno distrutto la rappresentatività del sistema politico, che non è più lo specchio del paese, ma solo dello stesso sistema che si perpetua.
Il campo della partecipazione al voto è stato definito dalle istituzioni che guidano le scelte di fondo sull’economia e sulla politica estera, cioè le scelte e le decisioni che incidono su gran parte della vita delle persone.
Nel 2015 in Grecia il governo di sinistra di Tsipras tenne un referendum per decidere se accettare o meno le brutali misure di austerità imposte dalla Troika di Fondo Monetario Internazionale, Unione Europea, Banca Centrale Europea. La partecipazione al voto fu altissima e il 62% della popolazione votò NO. Eppure pochi giorni dopo Tsipras sottoscrisse ciò che il popolo aveva respinto. Il ministro tedesco delle finanze di allora, Schauble, affermò che i popoli potevano pure votare come volevano, ma poi le regole dell’economia si sarebbero imposte lo stesso. Draghi, allora presidente della Bce, aggiunse che le politiche economiche degli stari procedevano secondo un “pilota automatico”.
La resa di Tsipras segnò definitivamente il campo delle politiche economiche della Ue: nessun governo avrebbe potuto rompere con i vincoli del liberismo economico e dell’austerità di bilancio senza rompere con la stessa Unione Europea. Così il campo storico della sinistra – lo stato sociale, l’intervento pubblico, l’eguaglianza – fu escluso dal campo reale della politica Ue. Sì, una forza di sinistra che accedesse al governo poteva anche tentare qualche migliore distribuzione della ricchezza, ma solo rispettando i canoni dell’austerità, solo ottenendo l’approvazione di banche e agenzie di rating.
Le elezioni di ieri in Portogallo, dove il partito socialista ha perso il governo e oltre il 30% dei suoi voti dopo aver tentato di migliorare i ristrettì margini dei vincoli liberisti, sono una ulteriore dimostrazione che non si può fare la sinistra dentro un sistema economico di destra. Alla fine la destra vera prende il sopravvento, magari incalzata da formazioni esplicitamente reazionarie. Mai come oggi il “migliorismo” nella sinistra alimenta la rinascita del fascismo.
Con la guerra, prima in Ucraina e poi in Medio Oriente, il campo dell’austerità si è unito a quello delle imprese militari, alla Ue si è sovrapposta la Nato. Se si sta con Ursula von der Leyen in Europa come si può essere seriamente contro Giorgia Meloni in Italia? La nostra presidente del consiglio a volte risulta persino più cauta della feroce guerrafondaia che è a capo della Commissione Ue. Insomma, la politica economica e la politica di guerra dell’Italia sono decise da Ue, Usa e Nato, chi vuol governare il paese deve baciare tutte e tre queste pantofole, altrimenti tutto il sistema politico e mediatico lo porta al rogo.
E allora in un paese con la dinamica salariale peggiore dell’Ocse, con una sanità pubblica che muore mentre dilagano le spese militari e di guerra, con la passività e la rassegnazione dei poveri e degli oppressi, nell’Italia ove tutte le principali scelte sono presentate come obbligate o immodificabili, cosa vuol dire votare? Certo la borghesia riflessiva ancora chiama al voto di fronte alle rozzezze della destra, il suo ideale restano i banchieri e i professori di economia che portano l’Italia in guerra e che tagliano le pensioni, con battute intelligenti e bon ton. Ma le classi popolari che sono contro la guerra e l’austerità perché ne pagano tutti prezzi, ma che nessuno davvero ascolta, perché dovrebbero accontentare il buon gusto della buona borghesia e dei suoi giornalisti? O non votano, o votano per clientela, o votano per rabbia, sempre più spesso a destra.
La fine del suffragio universale in Italia è la fine della Costituzione antifascista, e per ribaltare questo esito si dovrà rompere il campo della politica delimitato dai vincoli della Ue e della Nato. Non solo nei palazzi, ma prima di tutto nel paese. Altrimenti la politica ufficiale sarà una sempre più elitaria alternanza tra destre.