Faccio prima a fare l’elenco, ché tanto i discorsi li hanno già fatti tutti:

– “Le madri usano il mangime per gli asini per fare il pane e i bambini masticano le foglie strappate dagli alberi” (Financial Times, riportando funzionari Onu)
– “Gaza assiste a un’uccisione di massa di bambini al rallentatore, perché non c’è più niente da mangiare” (Save the Children)
– “L’ingresso degli aiuti umanitari è sotto il controllo dell’esercito israeliano” (Jamie McGoldrick, coordinatore umanitario Onu)
– “I funzionari dell’Onu fanno notare che ai loro camion di aiuti è stato rifiutato l’ingresso per settimane e che negli ultimi mesi, in almeno tre casi, le truppe israeliane hanno sparato contro i convogli” (Financial Times)
– “Israele non permette ai giornalisti stranieri di entrare a Gaza, così può liquidare come faziosi i resoconti dei giornalisti palestinesi” (Amira Hass, giornalista israeliana, per Haaretz)
– “I militari israeliani saccheggiano le case dei palestinesi per avere un macabro ricordo delle operazioni nella Striscia di Gaza” (Oren Ziv, giornalista israeliano, per +972 Magazine)
– “Palestinesi con mani e piedi legati, spogliati, bendati, avvolti in bandiere di Israele” (Bellingcat, gruppo di giornalisti investigativi).

E poi ci sono i numeri, tondi e puliti, che non fanno sentire la puzza di sangue: oltre 30.000 morti (25.000 tra donne e bambini), oltre 70.000 feriti, oltre 1.800.000 profughi, oltre 2.300.000 accartocciati per la fame. Forse, a Gaza, si sta andando oltre.

I discorsi su tutte ste robe qua, dicevo, li hanno già fatti. E alcuni, strepitosi, sono da notte degli Oscar. Quando 118 palestinesi sono morti mentre raccattavano farina, “sparati addosso dall’esercito israeliano mentre i carri armati avanzavano schiacciando cadaveri e feriti” (Al Jazeera), il portavoce dell’esercito israeliano, Daniel Hagari, ha parlato di “sfortunato incidente” e di “spari non letali” dando la colpa a “qualcuno che spingeva gli altri con violenza, calpestandoli a morte, per saccheggiare i rifornimenti umanitari”. In coda, si sa, c’è sempre qualcuno che spinge: non fa una piega.

Anche se fosse vero, a me sembra che tra sparare e ridurre alla fame ci sia la stessa differenza tra uccidere sul colpo o con una lenta agonia. I discorsi di lana caprina su ste robette qua, l’ho già detto e mi ripeto, tutti li hanno fatti. Però. Però manca sempre una cosa: un nome. Mi spiego. L’altra guerra affacciata sull’Occidente è quella d’Ucraina, con il mondo che ogni giorno indietreggia in un’epoca fredda. Di nuovo torna la spaccatura tra i blu e i rossi, tra la Nato e… Putin. No, non la Russia: Putin. L’aggressore malvagio, il dittatore crudele, il mostro di una lunga tradizione di mostri. Putin è la nuova incarnazione del cattivo, sulla stessa linea genealogica di Stalin, Milosevic, Mao, Hitler. La lotta che l’Occidente finanzia e dibatte non è né alla Russia, né al suo popolo: è a Vladimir Putin.

A Gaza no. Negli articoli online e nei talk dalle belle inquadrature manca sempre nome: Benjamin Netanyahu. L’ex militare, il primo ministro di Israele praticamente da metà anni ’90, il conservatore di destra, “Bibi” il duro sulla questione palestinese. Il suo nome si accomoda sui giornali quando si parla di politica israeliana, dei rapporti con Biden e del calo di consensi interno. Ma quando c’è morte e c’è orrore, la parola Netanyahu si alza e se ne va. Puff: sparisce. Fateci caso: nelle cronache di guerra ucraine il soggetto è Putin, a Gaza è Israele. È vero, Putin è un presidente che agisce da dittatore, ma anche Netanyahu è un premier forte di “mezzi d’informazione nazionali che raramente si occupano di eventi militari che non possano essere giustificati come attacchi contro terroristi” (Haaretz, giornale israeliano considerato di opposizione).

È vero, l’Ucraina non aveva torto un capello alla Russia mentre Israele è stata attaccata e reclama ancora i suoi ostaggi, ma nulla può giustificare un esercito altamente preparato che massacra civili. Giustizia è far pagare i colpevoli; sterminare bambini a caso è vendetta. E giustizia e vendetta non possono mai essere sinonimi. Per quanto possano esserci e ci siano differenze e similitudini, nelle rispettive guerre Putin e Netanyahu sono entrambi – è evidente – due aggressori. Eppure ricevono trattamenti assai diversi. E non parlo solo degli ipocriti ossequi che i leader d’Occidente ancora riservano a Netanyahu, parlo della cronaca di tutti i giorni.

Sembrerebbe faccenda di poco, ma narrazioni diverse hanno effetti diversi sulla pubblica opinione. Perché su un fronte il cattivo è Putin, un uomo, e sull’altro è Israele, un popolo? Perché Netanyahu non è il mostro da prima pagina? Forse è l’ultimo retaggio di un riserbo verso l’occidentale governo israeliano che non riusciamo a smaltire; forse al contrario è il rigurgito di un antisemitismo latente che ci spinge a puntare il dito contro Israele, tutta. Che sia un caso o che sia l’altro, paradossalmente opposto, credo che il trattamento debba essere uguale perché uguale è la morte che spargono.

Tutti i nomi di chi comanda massacri devono passare agli orrori della storia. Come proprio loro insegnano, non si fanno eccezioni.

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