Mafie

Maria Chindamo uccisa e data in pasto ai maiali, dopo 8 anni inizia il processo. L’imprenditrice ribelle disse no alla ‘ndrangheta

Un femminicidio feroce su cui si era espresso anche l’allora procuratore Nicola Gratteri: “La sua libertà di essere donna non le è stata perdonata”. Inizia giovedì, in Corte d’assise a Catanzaro, il processo per la morte di Maria Chindamo: Uccisa, data in pasto ai maiali e i resti, poi, macinati con un trattore cingolato. Sul banco degli imputati Salvatore Ascone accusato di concorso nell’omicidio dell’imprenditrice di Laureana di Borrello, scomparsa il 6 maggio 2016 a Limbadi, e il cui corpo fu distrutto. L’uomo, proprietario di un terreno attiguo a quello della donna, è accusato di avere manomesso l’impianto di videosorveglianza posto all’ingresso dell’azienda dell’imprenditrice.

La donna si era ribellata alla ‘ndrangheta e aveva deciso di gestire i terreni di sua proprietà dopo il suicidio del marito, Ferdinando Puntoriero, morto l’8 maggio 2015. Il padre di quest’ultimo, Vincenzo Puntoriero (deceduto), sarebbe stato il mandante dell’omicidio della nuora. A un anno esatto dal suicidio del marito, infatti, Maria Chindamo si era ritrovata a gestire i suoi terreni e la sua attività agricola originariamente riconducibili ai Puntoriero, “quella stessa famiglia – scrivevano i pm – che ha ritenuto la donna responsabile del suicidio” del figlio.

Il racconto dei collaboratori di giustizia – Chindamo, 42 anni all’epoca, era stata uccisa due giorni dopo aver reso pubblica la sua relazione con il nuovo compagno, un poliziotto, pubblicando su Facebook le foto di loro insieme. Ascone detto “Pinnolaru”, confinante dei terreni della Chindamo, avrebbe manomesso il sistema di videosorveglianza, installato presso l’immobile di sua proprietà a Limbadi, in modo da impedire la registrazione delle immagini riprese dalla telecamera orientata sull’ingresso della proprietà. A raccontare la fine delal donna i è stato prima il collaboratore Antonio Cossidente per averlo saputo dal suo compagno di cella, il pentito Emanuele Mancuso, figlio del boss Pantaleone Mancuso detto “l’ingegnere”. Anche il secondo collaboratore di giustizia conferma la tragica fine che la ‘ndrangheta ha riservato all’imprenditrice scomparsa e indica il capannone dove “i maiali hanno divorato il corpo della Chindamo”. A Emanuele Mancuso lo raccontò proprio il figlio allora minorenne di Salvatore Ascone, al quale il pentito aveva regalato una moto da cross: “Il padre sfrutta lui e il fratello senza dagli nulla. Si legò ancora di più a me ed io mi guadagnai la sua fiducia. Era come se fossi un idolo per questi due ragazzini”. “Mi disse – è scritto sempre nel verbale – che, in 20 minuti, i maiali si erano divorati il corpo della donna e che avevano poi triturato i resti delle ossa con una fresa o con un trattore. Questo racconto mi fu fatto qualche tempo dopo la scomparsa della donna”.

Il fratello della vittima: “Non ho mai smesso di credere nello Stato” – “Per otto anni – ha detto alla vigilia del processo il fratello della donna, Vincenzo Chindamo – abbiamo camminato sulle strade della speranza anche quando tutto sembrava perso. Grazie ai movimenti e alle associazioni Penelope Italia Odv, Libera Vibo, Goel-Gruppo Cooperativo, gli avvocati Nicodemo Gentile ed Antonio Cozza, tantissime scuole. Un cammino sempre con meno solitudine e sempre più in compagnia di un fronte di speranza e rinascita, fatto da tante donne e uomini partendo dal cancello di Limbadi e dagli abitanti di Limbadi. È significativo passare a comprare il pane ed essere riconosciuto ed accolto con il sorriso! È significativo e coraggioso che l’Amministrazione comunale e la scuola a Limbadi celebrano l’8 marzo nel salone del comune in memoria di Maria Chindamo e dei valori della libertà, annunciando l’intitolazione di una via a suo nome”. “Dopo 8 anni – ha aggiunto – la prima udienza. Mi aspetto l’inizio di un percorso con una velocità diversa, in cui lo Stato si è reso più manifesto nel partecipare a questo cammino difficile. In 8 anni ci sono stati silenzi operosi e si è lavorato molto, il processo ne è la dimostrazione. Non ho mai smesso di credere, lungo tale interminabile periodo, nello Stato. Grazie per chi mi ha contattato sentendo di voler essere simbolicamente presente giorno 14 per amplificare gli appelli di verità e giustizia”. Il processo, filone della maxi inchiesta “Maestrale”, riguarda anche l’omicidio di Angelo Corigliano, avvenuto a Mileto nell’agosto 2013, per il quale sono imputati a vario titolo Salvatore Pititto, Domenico Iannello e Giuseppe Mazzitelli.