Gli stupiti. I delusi. I folgorati. Sono i tre tipi di democratici che si incontrano per le strade di New York in questi giorni. Non si tratta per forza di attivisti o militanti. È gente che di solito vota democratico, che in particolare ha votato per Joe Biden nel 2020. E che oggi assiste alla campagna presidenziale con un misto di angoscia e curiosità, incredulità e rassegnazione.
Joe Biden è debole. Nel Discorso sullo Stato dell’Unione ha mostrato un inaspettato vigore, ma non c’è da farsi troppe illusioni. In molti non lo amano: per quanto fatto, o non fatto, a Gaza; per essere stato un socialista in economia, o per non esserlo stato abbastanza; per aver lasciato entrare migliaia di migranti dal confine meridionale, o per non aver difeso a sufficienza i loro diritti; per il quasi fiasco della guerra ucraina, per le promesse mancate agli afroamericani, per non aver saputo fermare i rigurgiti patriarcali sul corpo delle donne. Gli 81 anni portati non benissimo, le frequenti parole in libertà lo rendono ancora più fragile e sfocato. Mentre Biden traballa, Donald Trump si libera dai problemi giudiziari e vola nei sondaggi, ponendo l’America e il mondo di fronte alla concreta possibilità di un suo ritorno alla Casa Bianca. Ed è qui che i democratici, almeno quelli con cui capita di parlare in un grigio marzo newyorkese, diventano maschere di una commedia che potrebbe trasformarsi in dramma. Appunto. Gli stupiti. I delusi. I folgorati.
Sarah è stupita. È più che stupita. È allibita. “Ma come si fa? – chiede – La gente ha dimenticato cosa sono stati i quattro anni di Trump? E della sua integrità morale frega qualcosa a qualcuno?”. Su un tavolo del suo appartamento nell’Upper West Side, incorniciati in argento sfavillante, ci sono i ritratti di Eleanor Roosevelt, Martin Luther King, Barack Obama (ce n’è anche un quarto, quello di un giovanissimo e corrucciato Paul Newman). Sarah ha 73 anni, faceva la psicologa, è in pensione, frequenta una delle sinagoghe più liberal della città, la Temple Israel dall’altra parte del parco, nell’East Side. Essere democratica è per lei la cosa più naturale al mondo. Per tradizione di famiglia. Per fede nell’umanesimo ebraico. Per interesse nella sorte degli altri. “Ho sempre pensato – dice – che l’America fosse un posto pieno di cose che non vanno, ma capace di compassione e ravvedimento”. Trump è la pietra tombale sul suo sogno americano. “Immagino che molti tra i suoi stessi elettori lo trovino impresentabile. Ma lo votano, perché pensano che Trump gli darà quello che vogliono. Tasse più basse, la morale cristiana, l’America bianca. Pensano che a pagare saranno sempre gli altri: le donne più povere e senza istruzione, le persone transgender, i migranti disperati. Non capiscono che alla fine toccherà a tutti rinunciare a qualcosa della nostra libertà”. Sarah non ha idea di come possa finire. Biden ha fatto quello che poteva, dice, con un Congresso diviso e il mondo che va a pezzi. “È vecchio? – chiede – Si, è vecchio ma è decente”. Nel suo fortino tappezzato di icone liberal, Sarah ripete spesso la stessa frase: “Non ci posso credere. Non posso credere cosa siamo diventati”.
Carlos ha 33 anni. Nato e cresciuto a Miami da famiglia cubana, è arrivato a New York cinque anni fa per entrare nella compagnia di danza di Martha Graham. Un sabato sera se ne sta con un paio di amici a sorseggiare qualcosa di verde fuori dall’Eagle, il bar gay di Chelsea, il più frequentato in città. Qualche giorno prima c’è stato il Super Tuesday, la conversazione finisce naturalmente in politica. “Ho votato Biden nel 2020 – dice – Non è successo niente”. La famiglia di Carlos è repubblicana, come tanti altri esuli dalla Cuba castrista. “Ma io ho sempre votato democratico. Barack Obama. Hillary Clinton. Joe Biden”. Oggi Carlos è uno dei delusi, goccia nel vasto oceano di progressisti, pacifisti, giovani, ambientalisti, musulmani, ispanici, neri che si sentono traditi e promettono (forse) di farla pagare a Biden non andando a votare a novembre. “Speravo che facesse qualcosa per la nostra vita. Tipo, la storia degli affitti. Vivo nel Queens, sono uno dei fortunati a non avere un coinquilino, ma pago 3.000 dollari al mese. Invece di mandare soldi in Ucraina e Israele, Biden avrebbe dovuto lavorare per noi americani”. Quando gli dici che i finanziamenti per le guerre vanno in larga parte ad aziende americane produttrici di armi, quindi restano in America, Carlos fa sì col capo ma non ascolta, perché in fondo la rivendicazione del torto subito e della speranza delusa è ciò che tiene aperto il futuro e fa immaginare che le cose potranno cambiare. Prima che con gli amici rientri all’Eagle, c’è spazio per un’altra domanda. “Quindi a novembre cosa fai? Voti? Non voti?”. Carlos sorride, non dice nulla e comunque interviene uno del gruppetto: “Ma fatemi capire. Alla fine chi sono i candidati?”
Un altro democratico tipo incontrato in questi giorni a New York non ha un nome. O meglio, ovviamente ce l’ha ed è un nome greco, scritto sul cruscotto dell’Uber che guida. L’autista non ha nemmeno una vera faccia, nel senso che tutta la conversazione avviene mentre lui guida, di spalle, con una minima porzione di viso che si riflette nello specchietto. A compensare l’indeterminatezza fisica, c’è la voce. Acuta, sonante, tagliata in un accento che più spesso e newyorkese non potrebbe. “Sono nato ad Astoria, Queens. Mai mosso da lì in 51 anni. Una volta ci stavamo noi greci e gli italiani. Oggi vai a capire da dove vengono”. Gestiva due ristoranti e un caffè, “roba fine, non greca”. La cosa era diventata troppo impegnativa, non c’era Festa del Ringraziamento, non c’era Natale e così nove anni fa ha mollato tutto e si è messo a guidare un’auto per Uber. “Lavoro dodici, anche quindici ore al giorno senza interruzione. Non sono mai stanco e sono felice. Di solito faccio il turno di notte, fino alle 10-11 del mattino, così non devo sorbirmi il grugno di mia moglie e le stronzate delle mie due figlie”. Dice che il lavoro con Uber paga bene e che con i soldi guadagnati ha comprato due villette ad Astoria. In una ci vive con la famiglia, l’altra di quattro appartamenti la affitta. “Ma non ho mai pagato tante tasse come quest’anno”, spiega. Ha sempre votato democratico ma il 5 novembre sceglierà Trump. “Vuole abbassarci le tasse. I democratici parlano e parlano, dei bagni dei transgender e di quelle cazzo di statue dei generali sudisti, poi però le tasse le pago io”. Il tassista è un folgorato, uno di quelli che pensano che con Trump andrà immediatamente meglio. I folgorati non sono ovviamente numerosi tra i democratici ma comunque ci sono ed è così strano incontrarli in un’isola liberal come New York. “Ma poi l’hai visto Biden? Sta a malapena in piedi”, ride. È la prima volta che tradisce i democratici, “ma chissenefrega, l’importante sono le tasse e con Trump ne pagherò di meno”. Un progetto di vita, che non sia pagare meno tasse, comunque ce l’ha. Lasciare New York e metter su casa a Cefalonia, l’isola da cui sono arrivati i suoi bisnonni. “Là c’è sempre il sole e ne voglio un po’ prima di finire al buio per sempre”, dice. E intanto lancia la sua Honda nera nel traffico del tramonto newyorkese.