Sedute una accanto all’altra, di fronte ad una platea di corrispondenti esteri a Londra, Stella Assange e Clare Rewcastle Brown sono due donne legate dallo stesso destino e parlano di una battaglia di giustizia, per loro e per i 564 giornalisti e operatori nei media che oggi sono imprigionati nelle carceri di tutto il mondo. Stella, moglie di Julian Assange, sta attendendo il verdetto che potrebbe dare al fondatore di Wikileaks l’opportunità di appellarsi contro l’estradizione negli Usa oppure spedirlo sul primo aereo militare verso l’America. Sola andata. Il volto e la storia di Clare non sono altrettanto famosi ma l’inchiesta pubblicata sul suo blog Sarawak Report ha portato alla luce quello che è stato definito il più grosso caso mondiale di cleptocrazia. E’ stata lei a far emergere lo scandalo del furto dell’equivalente di oltre 4 miliardi e mezzo di euro da un fondo aperto dall’ex primo ministro della Malaysia Najib Razak, che è stato poi riconosciuto colpevole di corruzione e sta scontando una condanna a 12 anni di carcere. E Clare ora la sta pagando. Il tribunale di Kuala Terengganu l’ha condannata in absentia, senza averle notificato alcuna procedura legale a suo carico (né tantomeno averle dato la possibilità di difendersi) per aver “diffamato” – questa l’accusa – la moglie dell’ex sultano Nur Zahirah, avendola nominata nel suo libro The Inside Story of the 1MDB Expose.
Scandalo e vendetta alla corte dell’ex sultano della Malesia
A pagina 3 della prefazione del suo libro, Clare descrive il contesto in cui si è sviluppata la sua inchiesta. La giornalista racconta che la moglie del sultano aveva presentato al marito il “protetto” del primo ministro, un’introduzione che gli permise di ottenere il ruolo di consulente finanziario del fondo che poco dopo sarebbe stato al centro del furto miliardario. “Era una spiegazione introduttiva dello scandalo in cui ho commesso un errore di persona, era la sorella non la moglie del sultano ad aver fatto le presentazioni – puntualizza Clare – ho corretto subito e pubblicato una nuova versione del libro, e mi sono scusata ufficialmente. Il giudice non ha ritenuto si trattasse di diffamazione e ha dismesso il caso legale contro di me, mentre il sultano è finito in carcere. La moglie aveva richiesto 100 milioni di dollari di compensazione e che ammettessi ufficialmente la diffamazione. Non ho potuto e ho fatto appello sulla base del fatto che giornalisti e accademici devono essere liberi di narrare gli eventi“. Ma i reali sono molto potenti – dice – e nel 2021, sfruttando il cambio di governo, hanno solo cercato vendetta “accusandomi nuovamente ma hanno ottenuto una richiesta di mandato di cattura internazionale (Red Notice Interpol) contro di me, perché non mi ero presentata ad un processo di cui nessuno mi aveva informata“.
Poi la sentenza scioccante. “A febbraio il mio avvocato mi ha comunicato che non solo si è svolto un processo penale contro di me, senza che sapessi niente, ma che sono anche stata condannata in absentia al massimo della pena, due anni di reclusione, per il reato di diffamazione. E questo proprio pochi giorni dopo che il sultano aveva perso l’appello per la scarcerazione e gli sono stati invece confermati altri due anni in carcere”.
Clare, 64 anni, si trova nel Regno Unito e ha chiesto il sostegno del ministero degli Esteri britannico perché spinga il governo malesiano a far cadere le accuse contro di lei. Il suo caso è un drammatico esempio degli illeciti perpetrati – spesso impunemente – per fermare la stampa libera. “Nel 2011 quando ho cominciato a scrivere della corruzione che si nascondeva dietro la distruzione della foresta equatoriale, ho cominciato a scoprire che ad agenzie di PR e compagnie di produzione britanniche erano stati commissionati 5 milioni di dollari per attaccarmi. Professionisti pagati a Londra producevano programmi fake e creavano finti website e pagine Facebook e Twitter per denigrare le mie inchieste – rivela Clare – Adesso questo è un business conclamato ed io sono stata tra i primi bersagli”.
Fiona O’Brien, direttrice di Reporter Sans Frontière, fa fatica a tradurre in numeri la persecuzione contro i giornalisti, perché i casi crescono giorno dopo giorno, spiega: “In questo momento sono 564 i giornalisti e operatori nei media che si trovano in prigione per aver svolto il proprio lavoro. In Cina sono 109, 20 sono in Iran e lì solo la settimana scorsa un gruppo di giornalisti britannici è stato condannato in absentia senza neanche sapere del processo. Le persecuzioni prendono forme diverse, e da fonti diverse, dagli abusi online ma, come oggi vediamo a Gaza, si arriva anche alla violenza fisica“. Il modus operandi è allarmante e fortemente destabilizzante: “I regimi autoritari hanno enormi somme di denaro per attaccare i propri nemici, e investono ingenti budget in strategie per difendersi dai media – parola di Rewcastle Brown – Anche se non riescono a mettere in carcere i giornalisti nei loro paesi possono rendere la loro vita estremamente difficile ovunque siano”.
Julian Assange docet
Lo sa bene Stella Assange che da cinque anni si sta battendo strenuamente per la liberazione del marito, rinchiuso in condizioni estreme nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, definito la Guantanamo di Londra, senza avere avuto un giusto processo o una condanna. Stella, che giovedì prossimo sarà in Italia per ricevere il premio al fondatore di Wikileaks dalla città di Perugia che ha espresso sostegno al riconoscimento della libertà, della protezione e dello status di rifugiato politico a Julian Assange. “Dopo la due giorni di udienza di febbraio ancora non abbiamo un verdetto, penso che la corte ci darà un preavviso di un paio di giorni e poi la sentenza verrà letta in corte (forse prima di Pasqua) ma non sappiamo il giorno, cerco di non focalizzarmi troppo sulla data perché la cosa importante è mantenere vivo il caso di Julian – continua la moglie del giornalista australiano – Il clamore mediatico ha fatto un po’ di pressione sui giudici che hanno ottenuto le ulteriori informazioni che avevano richiesto. Le domande che ci hanno posto in corte mi suggeriscono che stanno dando considerazione a fatti fondamentali e spero che questo porti alla possibilità per Julian di fare appello contro l’estradizione e presentare finalmente il suo caso”. Per Julian come per Clare l’esito migliore sarebbe la decisione delle amministrazioni statunitense e malesiana di far cadere le accuse, ovvero “l’unico modo di garantire la sicurezza di giornalisti che fanno il proprio lavoro” incalza O’Brien.
La palla è nel campo di Biden
Secondo Stella Assange “negli Stati Uniti c’è il sentore che le cose potrebbero cambiare, Biden è nella posizione di concedere il perdono a Julian, come Obama lo concesse a Chelsea Manning. Prima di Natale ci sono state anche le richieste congiunte di democratici e repubblicani e ora è in corso una risoluzione davanti al Congresso. La cosa incoraggiante è che il fratello di Julian, Gabriel Shipton, sia stato invitato a partecipare allo State of the Union (il discorso annuale del presidente Usa alla sessione congiunta del Congresso)”. “Se volesse – aggiunge – Joe Biden potrebbe farlo liberare immediatamente questo non è un atto che potrebbe far arrabbiare ‘gli avvoltoi politici’, penso che Biden abbia più paura di non adirare l’establishment della Cia“.
Quella dei giornalisti che espongono verità sconvenienti che provocano scandali e crolli di governi, è da sempre la storia di David e Golia. “La verità è un’arma molto potente, è stata la mia protezione contro Golia – conclude Clare Rewcastle Brown – La mia verità è riuscita a mostrare che il governo malesiano ha fallito, l’ex primo ministro è stato condannato ed ora è in prigione. Questo dimostra quanto il potere dei media liberi sia importante nell’interesse pubblico. Non so se vincerò la mia causa legale ma nel frattempo farò vincere il giornalismo responsabile”.
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Liberiamo Julian Assange: le istituzioni italiane rompano il loro silenzio – FIRMA SU IOSCELGO