Sono al valico di Rafah, mentre scrivo, nel bel mezzo del deserto del Sinai, a poca distanza dalla barriera di separazione innalzata oltre 20 anni fa con Gaza, con l’obiettivo dichiarato di aumentare la sicurezza della popolazione israeliana e di prevenire attacchi da parte di gruppi armati palestinesi. Dopo quanto accaduto il 7 ottobre scorso, trovarsi di fronte a questo “muro” dà l’esatta dimensione del fallimento politico a cui stiamo assistendo e della necessità di una profonda riflessione – nel nostro Paese come in tutta la comunità internazionale – sulla legittimità della strategia e dei mezzi usati dai governi di Israele per ottenere questa “sicurezza”.

Il governo di Israele, dopo l’attacco sferrato da Hamas, ha certamente innalzato il livello dello scontro a livelli mai visti prima, ma agisce in continuità con il suo obiettivo primario: rendere invivibile la vita per i palestinesi, annettendo di fatto, un pezzo alla volta, tutti i Territori Palestinesi Occupati. È in questa ottica che va letta la risposta agli efferati crimini – compreso il rapimento di centinaia di civili – commessi dai gruppi armati palestinesi: blocco totale dell’ingresso a Gaza di acqua e cibo, entrate razionate di carburante e medicinali, taglio dell’elettricità, fame usata come arma di guerra, sfollamento forzato della popolazione civile, bombardamenti a tappeto in territori densamente popolati. Tutti crimini di guerra che hanno prodotto oltre 31mila morti, di cui 13 mila bambini e 9 mila donne.

Una deportazione di massa nel Sinai?

A questo si aggiunge il piano che prevede lo sfollamento della popolazione di Gaza nel Sinai. Una vera e propria deportazione di massa, che il governo Netanyahu si sta apprestando a mettere in atto e che potrebbe costituire anche una rappresentazione diretta di pulizia etnica. A pochi metri da me, infatti, sono nati nuovi muri e i bulldozer stanno preparando le nuove aree, fuori da Gaza, che potrebbero essere usate come campi profughi.

Gli aiuti bloccati per motivi di sicurezza

Migliaia di camion di aiuti sono fermi dove ci troviamo e interi magazzini sono pieni di aiuti che hanno ricevuto il divieto di ingresso, nel nome di alquanto discutibili motivi sicurezza. Non importa se oltre il valico di Rafah, oltre 1 milione e mezzo di sfollati rischiano di morire letteralmente di fame e sete.

Israele continua a respingere arbitrariamente articoli di aiuto classificandoli come “a duplice uso”, ovvero beni civili con potenziale uso militare. Peccato che questi articoli siano spesso essenziali per la sopravvivenza delle persone o per curare i civili feriti dai bombardamenti. I container respinti sono pieni di incubatrici per neonati, bombole di ossigeno, generatori, stampelle, disinfettanti per le sale operatorie, kit igienici e molti altri articoli di questo tipo.

Gli effetti dell’assedio sulla popolazione

L’assedio israeliano alla Striscia sta causando una catastrofe umanitaria senza precedenti, con il nord di Gaza rimasto completamente isolato, rispetto al resto del territorio.

Nei giorni della missione organizzata dell’Associazione delle ong italiane, di cui Oxfam Italia fa parte, con Assopace Palestina, ARCI e una quindicina di parlamentari italiani abbiamo incontrato numerose organizzazioni umanitarie ed agenzie delle Nazioni Unite: tutte ci hanno descritto “un quadro apocalittico”. Ecco, pensare a cosa succede a pochi chilometri da te mentre vedi tutti quegli oggetti salva vita, fa male al cuore. Solo nel nord vivono, o meglio sopravvivono, oltre 300mila persone che, se va bene, consumano un pasto ogni quattro giorni. C’è chi è costretto a nutrirsi con cibo per animali ed erbe selvatiche. I bambini iniziano a morire di malnutrizione e disidratazione, 25 solo nella giornata di lunedì 11 marzo.

Quante vittime dovremmo attendere prima di un cessate il fuoco?

Secondo uno studio della John Hopking Univeristy, di qui a 6 mesi il numero di vittime potrebbe crescere esponenzialmente aggiungendone altre 74mila nel caso di un’escalation del conflitto e altre 58 mila se le cose continueranno esattamente come ora. Dati che potrebbero essere ancora peggiori nel caso di epidemie. Ebbene, quanto tempo dovremo ancora aspettare prima che un cessate il fuoco diventi la priorità assoluta per la comunità internazionale? Essendo questa la precondizione essenziale per un’adeguata risposta ai bisogni sempre più urgenti della popolazione. Occorre ribadirlo, come hanno fatto le Nazioni Unite: non c’è alternativa a un dispiegamento di aiuti su larga scala via terra e per questo urge aprire tutti i valichi.

È per questo che vogliamo rinnovare il nostro appello al governo Meloni affinché l’Italia si adoperi in modo molto più deciso per un cessate il fuoco e un accesso incondizionato degli aiuti umanitari in ogni luogo della Striscia, con l’apertura all’ingresso di tutti i valichi che portano a Gaza, aumentando il volume degli aiuti italiani.

Infine non è facile comprendere l’atteggiamento italiano nei confronti dell’UNRWA, l’agenzia Onu che rappresenta la spina dorsale del sistema umanitario a Gaza: perché l’Italia non segue l’esempio della Commissione Europea che ha sbloccato i fondi all’agenzia o quello di Svezia, Canada ed altri paesi europei, rivedendo la sua decisione di sospendere i fondi promessi nel 2022? Senza UNRWA si rischia ancora di più una catastrofe umanitaria. Più di un mese fa la Corte Internazionale di Giustizia, ritenendo plausibile che Israele stia violando la Convenzione sul Genocidio, ha emesso nei suoi confronti delle misure vincolanti tra cui quella “di adottare misure immediate ed efficaci per affrontare le condizioni avverse della vita nella Striscia di Gaza”. E’ obbligo anche dell’Italia fare in modo che vengano rispettate così come è vietato compiere iniziative che facilitino la commissione del crimine.

L’atteggiamento italiano forse cambierebbe se la Presidente Giorgia Meloni aggiungesse al suo prossimo viaggio in Egitto, per l’ennesimo accordo sul blocco dei flussi migratori, una tappa alle porte di Gaza?

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